Pietro Marcello torna a Cannes con “Le vele scarlatte”

Innamorarsi di un libro e “tradirlo” per coglierne le verità.

Dopo Martin Eden, il film tratto dal romanzo di Jack London, il regista Piero Marcello conduce un’operazione simile con un altro libro: la novella Vele scarlatte dello scrittore russo Aleksandr Grin (il suo vero nome era Aleksandr Stepanovič Grinevskij), vissuto tra il XIX e il XX secolo: libro che fu pubblicato la prima volta a Leningrado nel 1923 e, in Italia, ripubblicato da Editori Riuniti, nel 2020.

Grin è uno dei non rari casi di autori rimossi dalla memoria collettiva per via delle sue idee. “Era uno scrittore d’avventure. Aveva aderito al socialismo rivoluzionario e venne arrestato varie volte. Le sue opere più importanti, comprese Le vele scarlatte, furono scritte durante la guerra civile che seguì la rivoluzione del 1917. Il suo tono antimilitarista e romantico imbarazzava gli editori dell’epoca che cominciarono a rifiutare di pubblicarlo. Divenne un reietto e morì in povertà dopo essersi trasferito in Crimea”, dice Marcello. Una figura in un certo senso di nuovo attuale visto ciò che sta accadendo in Russia e Ucraina.

 

Il film, appena presentato al festival del cinema di Cannes (alla Quinzaine des réalisateurs), è ambientato in Francia in un piccolo centro non meglio specificato. Raphaël, un ex soldato di ritorno dal fronte della prima guerra mondiale ritrova la figlia, Juliette. Sua madre è morta poco dopo la sua nascita e di lei si è occupata Adeline, una donna che vive insieme a poche altre persone ai margini del paese, guardata con antipatia (ricambiata) dagli abitanti del villaggio.

Raphaël entra far parte della mini comune. Lavora come falegname e, intanto, cresce la figlia. Gli anni passano e Juliette diventa una giovane donna decisamente poco convenzionale. Solitaria – preferisce la lettura alle conversazioni – ma decisa a non andar via dalla sua piccola “comune” e a non allontanarsi dal padre neppure per cogliere l’occasione di studiare in città. Nonostante una maga le abbia predetto che un giorno, l’apparizione di vele scarlatte, significherà il suo allontanamento dal villaggio.

Juliette Jouan e Louis Garrel in Le vele scarlatte

Che cosa l’ha colpita del libro tanto da farci un film?

Ho sempre provato una grande una fascinazione per letteratura russa, così come per cinema russo. Me ne sono innamorato anche se non era nei piani. Ero concentrato su altri due progetti cui tenevo molto (Ovvero: Per Lucio, il documentario su Dalla, uscito lo scorso anno, e Futura, altro documentario, presentato sempre alla Quinzaine des réalisateurs nel 2021, e co-diretto con Alice Rohrwacher e Francesco Munzi, ndr). Inoltre mi ero ritrovato a vivere in Francia anche se, all’epoca, non conoscevo neppure la lingua. L’elemento che mi ha fatto vedere un film nel romanzo è il rapporto tra il padre e la figlia. La madre muore, ed è lui a prendersi cura della bambina.

Però nel film la storia è molto diversa dall’originale.

Sì. Rispetto al romanzo abbiamo cambiato parecchie cose. Soprattutto il ruolo dell’avventuriero che, nel film è interpretato da Louis Garrel, e che nel romanzo arrivava a “salvare” Juliette. La ragazza passava da un uomo all’altro, dal padre a questa sorta di “principe azzurro”. Invece, noi abbiamo fatto un film in costume ma moderno. Juliette non si lascia salvare da lui, come una damigella in pericolo. Al contrario, è lei a prendere l’iniziativa, a baciarlo, a curarlo, e infine a lasciarlo andar via. Credo di essermi emancipato anche io con questo film, penso di aver raccontato una storia sul matriarcato e di aver “distrutto” l’immagine del principe azzurro.

Il matriarcato era un aspetto che le interessava?

Quello e l’aspetto comunitario della storia. Quando Raphaël ritorna a casa dalla guerra, ad accoglierlo c’è questa insolita piccola comunità che, nel film, è composta da un gruppo di reietti del villaggio: la padrona della fattoria, Adeline, e il maniscalco con la moglie.

Come ha scelto gli attori protagonisti?

Per trovare Juliette, abbiamo fatto “un casting selvaggio”: abbiamo visto migliaia di ragazze, ma Juliette Jouan mi ha convinto subito. È il suo debutto, eppure senza di lei il film sarebbe stato molto diverso. Poi, dopo aver trovato la figlia, ci siamo messi alla ricerca del padre. Ho capito subito che Raphaël Thiéry era giusto per la parte per via della sua autorevolezza.

Agli attori ha dato quasi carta bianca.

Abbiamo sperimentato molto. E la sceneggiatura è cambiata mentre giravamo. Vengo dal documentario, sono abituato a improvvisare sulla base delle persone e delle situazioni. Jean Renoir diceva che il cinema si fa fra amici. Noi siamo diventati una grande famiglia durante le riprese, con gli attori, ma anche con la troupe. Molte cose che si vedono non erano in sceneggiatura. Per esempio, è stata Juliette ad adattare la poesia di Louise Michel, L’Hirondelle, e a farne il testo di una canzone nel finale del film. Avevamo trovato per caso la raccolta di poesie nella fattoria scelta come set.

Nel film, come aveva già fatto in Martin Eden, ci sono materiali d’archivio, filmati d’epoca che intermezza qua e là al girato.

Sono un archivista, fa parte della mia formazione. Ma credo che usare materiali d’archivio nei film in costume sia anche una questione etica. Non ha senso avere budget altissimi per realizzare le scenografie di film storici patinati. Meglio usare i soldi per costruire ospedali e scuole.

Vede altre somiglianze con Martin Eden?

Il protagonista di quel film si allontanava dalla sua famiglia per istruirsi e cambiar vita. Juliette è l’opposto. Il padre le chiede se voglia andare a studiare in città ma lei decide liberamente di rimanere. Solo dopo la sua morte sente di voler andare via.

Possiamo definirlo un film femminista?

Femminile più che femminista. Da spettatore, sono il primo a sorprendermi di questa mia evoluzione. Le vele scarlatte, che sembra portarci nel passato, in realtà si può guardare con occhio moderno, come un film su un modello nuovo di matriarcato. È un film che prende il punto di vista delle donne.

C’è una frase nel film che lo riassume?

Credo sia: “Non fare il bene equivale a fare il male”.