Quando il Male mi ha sfiorata e non me ne sono accorta

Qualcuno potrebbe averla vista l’anno scorso, in scena – seduta – al Piccolo Teatro di Milano, protagonista di A German Life. Altri forse l’hanno seguita andando a vedere uno spettacolo di Luca Ronconi: ne ha interpretati cinque, da Ignorabimus che le è valso un Ubu, Oscar del nostro teatro, alle Tre sorelle di Čechov con cui ha vinto un Premio Flaiano. Oppure, magari la riconoscerà qualche suo ex allievo della Silvio D’Amico di Roma o della Paolo Grassi di Milano, cui per anni anni ha insegnato: “Compromettetevi, cercate di capire che cosa voleva dire l’autore scegliendo quella parola e scoprite dentro di voi che cosa significa”.

Un ritratto dell’attrice Franca Nuti scattato nel 1969

Il suo nome però non è così conosciuto, interviste solitamente non ne fa (e assicura che questa sarà l’ultima). Ed è talmente consapevole della scarsa notorietà che la prima domanda è la sua: “Ma perché vuole parlare proprio con me?”.

La risposta, giocoforza stiracchiata, potrebbe essere: perché Franca Nuti, attrice di molto teatro e un po’ di televisione, nella sua vita lunga (finora) 93 anni ha visto più volte cambiare il mondo, ha attraversato lutti e guerre, e – forse – oggi che torniamo a vivere tempi bellicosi, la sua storia ha qualcosa da insegnarci.

Parliamo di guerra, quindi. Quali sono i primi ricordi?

I bombardamenti, gli allarmi, le fughe. Mio padre combatteva, la mamma e noi tre sorelle abbiamo cambiato residenza diverse volte, alla fine fuggimmo da Firenze verso Milano, eravamo lì il 25 aprile. Ricordo cose terribili, come quando la mamma comprò sacchi di farina per fare il pane, e poi scoprì che era cemento triturato. Ma la cosa peggiore fu la morte di mio fratello, che era sottotenente e dopo la caduta di Mussolini fu deportato in Polonia, dove morì prigioniero.

Suo padre era fascista?

No. Era capitano dell’esercito ed era antifascista. Faceva ostruzionismo ai tedeschi, per esempio indicando loro le strade sbagliate: gli sembrava un gesto di grande patriottismo. Ospitò anche in casa amici ebrei, con mia madre terrorizzata.

Hanno mai bombardato la vostra casa?

No, ma vivevamo al settimo piano e io e mia sorella quando suonava l’allarme giocavamo a chi arrivava prima in rifugio. Sa quando i bambini capiscono davvero che cos’è la guerra?.

Quando?

Nel momento in cui scappano nel rifugio, devono fare la pipì, e non sanno dove. Questo fa parte dei miei tormenti notturni, ci penso tanto quando ascolto le notizie dall’Ucraina.

Che cosa pensa di questa guerra oggi?

Soffro di non poter fare nulla, tranne pregare e digiunare, come dice papa Francesco. Certo, non so se il Creatore, che “poverino ha tante cose cui pensare” come dice il mio custode, riesce a colmare le mostruosità. In senso più concreto, quello che succede mi suggerisce, viste le mie esperienze guerresche, di provvedere in cantina a scatole di cibo in caso di sorprese.

Torniamo al ’45: lei era a Milano, vide Mussolini in piazzale Loreto?

Lo ha visto mio padre. Quando tornò, ci disse: “Non siamo uomini, siamo bestie”.

L’anno scorso, con A German Life è tornata a quegli anni, impersonando Brunhilde Pomsel, la segretaria di Goebbels. Che effetto le ha fatto?

Mi sono riconosciuta, eravamo così. Certo, in Italia non c’era la spudoratezza di Hitler. Anche quando torna nel ’54 dalla prigionia in Russia, Brunhilde è rimasta inconsapevole: i tedeschi avevano progettato l’eliminazione della colpa.

Ma perché si identifica con la Pomsel?

Durante il fascismo e la guerra ci sono stati sì i bombardamenti, la fame, la prigionia di mio fratello… Però i primi anni la divisa nera con le sottanine a piega delle giovani italiane ci aveva mandato in visibilio. E anche le adunate, gli inni, la ginnastica, le conquiste, l’Africa, la Grecia… Non era questione di essere fascisti: non ci rendevamo conto. Se non avessi avuto mio padre, non avrei saputo che cosa significava antifascismo. Ecco, con lo spettacolo ho ritrovato il mio passato di innocenza colpevole. Non sapevamo nulla e abbiamo creduto.

Questa consapevolezza le ha reso più difficile recitare la parte di una tedesca mai pentita?

Avevo visto un documentario, scritto da Christopher Hampton, su di lei, così vecchia e cadente, con il viso che sembrava il tronco di un albero che si sta scrostando, raccapricciante. L’ho studiata due anni, per riuscire a capirla. E poi l’ho fatta perché io il Male l’ho sfiorato diverse volte senza accorgermene: ho continuato a studiare, a giocare, a innamorarmi mentre la gente intorno moriva, Hitler uccideva gli ebrei e distruggevano tutto. Nessuno è incolpevole, come dice Strehler: per questo dovevo farla. Perché tutti abbiamo una vena di colpa, anche quelli che hanno fatto grandi cose.

Torniamo a suo padre. Oltre a insegnarle a essere antifascista, è stato lui ad avvicinarla al teatro, vero?

Papà amava il teatro, mentre mi cullava recitava La cena delle beffe. Così sono cresciuta con questo amore e a fine guerra mi sono iscritta a Milano all’Accademia dei Filodrammatici. Poi, appena ho finito la scuola, Ivo Chiesa mi ha presa per fare L’allodola con Lilla Brignone e Glauco Mauri, debuttante come me, e siamo partiti in tournée per il Sudamerica.

Una bella esperienza?

Sì, anche se siamo capitati proprio in mezzo alla caduta di Perón, nel 1955. Lui si era nascosto su una nave nel porto di Buenos Aires, vicino a dove noi dovevamo imbarcarci. Così, abbiamo dovuto aspettare che finisse la rivoluzione.

Allora com’era vista una donna che voleva fare l’attrice?

Ai tempi di mio padre, che amava moltissimo Paola Borboni, le donne in teatro erano considerate un po’ facili. Negli anni Cinquanta, invece, si diceva: “Si diverte, non ha voglia di studiare, è un gioco“. Recitare non era considerato un lavoro. Però, crescendo, molti di noi – uomini e donne  – dovevano mantenere la famiglia e quindi il 50 per cento del nostro interesse andava alla parola “paga”.

Lei è riuscita ad avere una famiglia?

Sì, sono sposata da sessant’anni con Giancarlo Dettori, attore storico del Piccolo Teatro. E abbiamo avuto due figli.

Come sono oggi i giovani attori e attrici?

Due anni fa, all’ultima selezione della scuola del Piccolo, c’erano 1.000 aspiranti, su una ventina di posti disponibili. Perché vogliono fare questo mestiere? Per solitudine, non appagamento, divertimento, gioco. Poi, con la scuola, si accorgono che è lavoro. Alcuni sono abbastanza talentuosi. Il problema è che il loro è il tempo dell’immagine, che è la morte dell’immaginazione.

Lei ha lavorato con Albertazzi, Zeffirelli, Buazzelli, tantissimi attori e registi. C’è un insegnamento che ancora oggi si porta dietro?

Me lo ha dato Luca Ronconi. Ci diceva di non leggere il copione, ma scriverlo: immaginare di essere noi attori che scriviamo la vicenda da rappresentare. In questo modo dalle nostre parole esce la verità. Perché bisogna sempre compromettersi in ciò che si racconta.