Sopravvivenza senza libertà

Aveva rappresentato la Francia negli occhi come La Libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix: terra di indipendenza, non proprio fedele al concetto di eguaglianza tra classi sociali, ma senza disperdere la coralità della sua appartenenza.

Così Irène Némirovsky, scrittrice di origine ebraica, nata a Kiev, scappata dalla repressione sovietica, rimbalzata in Finlandia, Svezia e finalmente approdata a Parigi, abbraccia l’identità francese: un popolo che viaggia insieme verso la vittoria, che non rinnega i suoi fratelli. E come tutte le rappresentazioni ideali, anche per Némirovsky arriva il momento di assistere allo sgretolamento dell’immagine e alla testimonianza della caduta.

Travolta dalla guerra lampo tedesca, costretta alla guida del maresciallo Pétain e arresa all’antisemitismo di Vichy, la Francia osserva inerte la disfatta della propria identità. È in questo clima di confusione e perdita di riferimenti che Irène Némirovsky comincia la stesura di un grande romanzo sulla sconfitta, opera che per tutta la lavorazione non tradisce mai l’aspirazione al modello di Guerra e pace – come scrive Olivier Philipponnat, biografo della scrittrice.

Cinque libri, quasi un reportage in presa diretta della Francia messa in fuga da Hitler, ormai sottomessa a quella che sembra essere l’inizio di una lunga Pax Germanica.

E se il progetto non verrà mai completato – Irène Némirovsky sarà arrestata, deportata e morirà ad Auschwitz nel 1942 – nel 2004, grazie a un recupero del romanzo che diventa romanzo stesso, è pubblicata la parte superstite con il titolo Suite francese.

Il resto è noto: Prix Renaudot, bestseller, riscoperta dell’opera omnia della scrittrice e passaggio al grande schermo, senza brillare come il libro. E proprio quando la voce di Némirovsky sembra essersi esaurita, tra inediti e riedizioni, ecco Tempesta in giugno (Adelphi, 2022, traduzione di Laura Frausin Guarino e Teresa Lussone), “seconda versione” dattiloscritta dal marito, corretta a mano da lei con nuovi capitoli.

Chissà se Némirovsky, da ebrea poi convertita al cattolicesimo, scrivendo, abbia pensato a una trasposizione al contrario dell’Esodo, ma Tempesta in giugno è la fuga dei francesi dalla loro patria. Non solo dalle proprie case, uffici e stazioni, ma dalla certezza dell’identità, da un quotidiano che in poche ore si perde per sempre.

Con uno stile epurato dal superfluo, più veloce di Suite francese, la scrittrice registra, quasi servendosi di steadycam, carrelli e panoramiche, l’intero popolo in movimento, da ogni angolazione e punto di vista possibile. Direttori di banca, impiegati, soldati, orfani, scrittori, ricchi borghesi: tutti sono chiamati a testimoniare la ritirata da Parigi e l’avanzata tedesca.

Un caos che riscrive anche l’ordine e le meccaniche tra le classi sociali, in cui chi ha sempre saputo cavarsela e quelli “che non sanno trarsi d’impiccio” si ritrovano a dover sopravvivere come “durante un naufragio, tutti insieme rimescolati su un ponte”.

Una prossimità che non si risolve mai con la custodia della solidarietà ma con un inedito ed egoistico istinto di salvezza: “La carità cristiana, la mitezza di secoli di civiltà le cadevano di dosso come vani orpelli rivelando un’anima arida e nuda. Lei e i suoi figli erano soli in un mondo ostile. Doveva nutrire e proteggere i suoi piccoli. Il resto non contava più”.

E se la borghesia francese non manca di essere descritta in tutta la sua ipocrisia, muovendosi in modo trasversale, Némirovsky sottolinea un attaccamento morboso alla materialità, che appartiene a ogni classe sociale: più la fine si avvicina, più l’effimero dell’esistenza occupa spazio e priorità.

È così per i vetri da pulire e il letto da custodire dalla polvere per la signora Michaud, i servizi di porcellana cinese di Charlie Langelet, la cena dello scrittore Gabriel Corte. Némirovsky gioca con le debolezze di ognuno, restituendo un affresco ironico nel disperato tentativo finale di scattare un’istantanea, raffigurare un mondo prima del suo precipizio. Come non pensare, rileggendo gli inventari di Charlotte Péricand, alle sale piene di occhiali, scarpe, bagagli, spazzole, orologi, ceste dei morti di Auschwitz rimasti senza nome: un’incoscienza per la meta finale, che la scrittrice aveva saputo vedere prima di assistervi.

Tempesta in giugno è l’immagine al negativo della Francia che Irène Némirovsky ha amato: dove non più la libertà ma la paura e la lotta per la sopravvivenza è lo spirito a guidare il popolo. Un coro universale che ancora descrive con empatia le fughe e le guerre di oggi: “Abbiamo camminato, pianto, tremato come te. Siamo fuggiti dai romani, dai barbari, dagli inglesi, dai prussiani, da tutti i guerrieri, da tutti i conquistatori”.

E la Storia continua” avrebbe chiuso Elsa Morante, sperando sempre di poter testimoniare in un futuro prossimo di un passato che toglie il sonno.