Quella volta che Fellini mi disse: “Chiamami maestà”

Anche da sarto e autodidatta, Franco Javarone, sapeva che sarebbe stato un attore, e ci è riuscito. Si è appropriato del suo destino per “bere la vita a grandi sorsi”.

Ci è voluto studio, impegno, fortuna, ma anche quello che non ha difficoltà ad ammettere che si chiami talento, quel momento unico in cui “dio decide di fare una vacanza sulla Terra”.

Mangiafuoco per Roberto Benigni, avvocato Russo per Luciano De Crescenzo, ma anche interprete per Sergio Corbucci, Federico Fellini, Pasquale Squitieri, Carlo Lizzani, Elio Petri. Un frammento di Novecento che “non ha mai voluto dimostrare niente”, perché lui è Franco Javarone “ed è già tanto”.

Ottant’anni a febbraio, ma “sempre fresco”, rassicura, perché non smette di sentirsi “come uno che non si è ancora innamorato per la prima volta”.

Con questa forza l’attore napoletano racconta, tra Strehler e De Simone, la Salomé in allestimento per l’Università e il presente con i successi di Luciano Spalletti. Perché a Napoli, in fin dei conti, tutto si mischia.

Come è stato il suo inizio come attore?

Un vero imprevisto. Di mestiere facevo il sarto, ma avevo sempre subito il fascino della recitazione. Sarà stato per l’influsso della lingua napoletana: tronca, eternamente musicale, una tradizione che anticipa il mio destino, come se vivessi in modo perenne sulla scena. Sapevo di non appartenere completamente a quel mondo: ai miei tempi tutti ascoltavano Claudio Villa, Nilla, ma io preferivo Mozart e Beethoven. Da spettatore al Teatro Politeama cominciai come claquer: la domenica vedevo i grandi sul palcoscenico come Mario Scaccia, Gianrico Tedeschi, Luigi Vannucchi in cambio di qualche soldo. Li vedevo e sognavo. Poi vedendomi sempre in platea, venne a trovarmi in bottega il regista Michele Del Grosso, proponendomi Ubu S.p.A.

Da quel momento fu tutto in discesa?

Non proprio. Interpretai Il figlio di Pulcinella con la regia di Gennaro Magliulo. In quello spettacolo debuttava Luca De Filippo – che all’epoca aveva adottato lo pseudonimo Luca della Porta – così ogni lunedì che non aveva repliche a Roma, Eduardo ci raggiungeva per assistere. Poco dopo mi contattò per prendere parte a Il contratto. Potete immaginare la mia gioia, seguita immediatamente dalla prima grande delusione: mi richiamò qualche giorno più tardi dicendomi “Ci ho riflettuto, tu non sei adatto per il mio teatro”. Fu una botta tremenda.

Come reagì?

Avevo sempre il sogno del teatro in lingua, così tentai il provino per Il Piccolo di Milano. Mi presero per Barbablù di Lamberto Puggelli. Forse con troppa sfrontatezza e ambizione, chiesi a Giorgio Strehler di poter lavorare con lui, quasi offendendo Puggelli, suo braccio destro. Mi fulminò: “Ma cosa vuoi? Non vedi che sei già in famiglia?”. Mi accanii così tanto che alla fine dovette cedere. Seccato si accomodò in platea e iniziò ad ascoltarmi. A metà del monologo, il panico. Dimentico la parte. Sbatto il piede per terra “Mannaggia, m’agge scurdate ‘a parte!” E Strehler, illuminandosi, “Cos’è che hai detto?”. Spiegai il vuoto di memoria e il regista confermò: “Peccato, stavi andando benissimo, sembrava una battuta così naturale”. Fui preso per L’opera da tre soldi.

Poi decise di tornare a Napoli per Gatta Cenerentola di Roberto De Simone, come mai questo cambio di rotta?

Ero nel cast di Enrico V diretto da Sbragia con Gli Associati, un altro grande sogno si era avverato: recitare Shakespeare. Tornai a Napoli per una breve vacanza e incontrai Virgilio Villani che mi raccontò dell’allestimento di Gatta Cenerentola. Tentò di convincermi a partecipare “Almeno vieni a vedere”. Lo ammetto, fui scettico: ero a Milano, con una grande compagnia, ma mi convinsi ad assistere a una prova. Non appena arrivato ascoltai Jesce sole, cantato a due voci da Fausta Vetere e Antonella D’Agostino. Non riuscivo a credere alle mie orecchie per la meraviglia. Decisi immediatamente di parteciparvi. De Simone scrisse per me il prologo, Bene mio, con una promessa: “Javarone, questo monologo lo devo sentire direttamente la sera della prima, mai durante le prove”. Tornai a Milano immediatamente e rinunciai all’Enrico V, pagando la penale. Fulvio Fo, fratello di Dario e amministratore della compagnia, mi prese per pazzo. Ma fui inamovibile. Volevo fare Gatta Cenerentola. La prima fu a Spoleto, al Festival dei Due Mondi. Un ricordo indelebile è il pubblico eccitato, in piedi, a ballare, durante il Coro delle Lavandaie. Tremava tutto, sembrava ci fosse il terremoto.

Uno spettacolo che le permise di entrare anche nel mondo del cinema. 

Eravamo a Roma e come abitudine, per paura da attore, ripetevo la parte in solitudine dietro le quinte. Notai un’ombra che si aggirava per il retropalco che aveva un viso familiare, mi avvicinai e chiesi: “Ma lei è Federico Fellini?”. Il regista amava curiosare l’allestimento, soprattutto i costumi, di Gatta Cenerentola al Teatro Tenda. Dopo qualche giorno mi chiamò per partecipare a Prova d’orchestra:Javarone, lei per me è al cinquanta per cento”. Quella percentuale poi è diventata film, a cui sono seguite pubblicità e, anni dopo, La voce della Luna con Roberto Benigni.

Che ricordo ha di Fellini sul set?

Fellini girava ed era sempre buona la prima. Se i tecnici per sicurezza chiedevano di fare una seconda ripresa, sbraitava: “Non la voglio fare! Non la voglio fare!”. Un genio che non mancava di mettermi in soggezione: i primi tempi non sapevo come rivolgermi così, timidamente, gli chiesi se preferiva essere chiamato maestro o Federico. Mi scrutò per un attimo: “Non chiamarmi maestro – quasi con umiltà – ma maestà, imperatore, eminenza.” Un vero giocoliere. Per tutta la lavorazione di Prova d’orchestra, passavo le notti in bianco per imparare il copione in tempo per il giorno successivo. La mattina mi chiedeva: “Hai imparato la parte?”. “Certamente, maestro” “Bene, adesso buttala. Dobbiamo fare un’altra cosa”. Cambiava tutto continuamente, ma Fellini poteva permetterselo: la fantasia non si può insegnare, al massimo puoi esserne contagiato.

Un altro grande maestro di cinema con cui ha lavorato è Elio Petri, nel suo ultimo film, Le buone notizie

Tutto merito di Paola Pegoraro, mia agente e moglie di Elio Petri. Aveva insistito per farmi entrare nel cast, senza che il marito ne fosse molto convinto, modellando il personaggio del commissario sulle mie caratteristiche. Più lavoravamo, più Petri mi osservava con attenzione, finché mi disse: “Ma tu come sei strano”, come se fosse una novità per me che lo ripeto ogni giorno, guardandomi allo specchio. Finché un giorno mi fece trovare un biglietto autografo con scritto: “Javarone, sei un attore straordinario”. Un ricordo che custodisco gelosamente. Come quello che ho di Carlo Lizzani: terminate le mie riprese in Fontamara, affranto esclamò davanti a tutti: “Che peccato, quanto mi dispiace”.

Tra cinema e teatro lei cosa preferisce?

Il cinema si preferisce per vanità, perché resta per sempre. Se qualcosa si sbaglia, si fa daccapo. Nulla è irreparabile, a parte le urla dei registi. Il teatro è scritto sull’acqua. Ma senza non ci può essere niente, perché il teatro è la cosa più importante che esista: mette al centro il corpo, il movimento, l’eleganza, e soprattutto la paura. Come quella che provai interpretando Eleonora con Vanessa Redgrave al Teatro San Carlo, in mondovisione. E poi come si può sostituire l’emozione di recitare su un palco come quello del Teatro alla Scala di Milano, sapendo che prima di te ci sono stati Maria Callas, Herbert von Karajan, Arturo Toscanini? E quel terrore che provi mentre stai per iniziare la battuta nel silenzio assoluto e pensi: questo è lo stesso silenzio che ha ascoltato Giuseppe Verdi durante il suo Nabucco?

Invece negli ultimi anni si è avvicinato alla pittura, come mai ha deciso di avvicinarsi a questa arte?

Come sono stato autodidatta da sarto e da attore, lo sono anche da pittore. Ma dietro c’è sempre una passione per le incisioni del Cinquecento, per l’opera di Rembrandt, l’Ottocento napoletano che è noto in tutto il mondo. Penso che tutto questo mio amore sia sempre opera di una città ricca di storia, dalle canzoni – che solo in un pianeta come Napoli possono esserci – agli attori. Peppino, Eduardo, Scarpetta, Palumbo. Tutto si fonde. Chi nasce qui è già fortunato in partenza e chi non riesce a fare niente si sente perdente due volte. Ma è una forza che non abbandona nessuno, anche chi viene da fuori. Come questo Napoli di Osimhen, Kvaratskhelia, Kim Min-jae. La paura di perdere c’è sempre, ma puntualmente riescono a farcela, e sa perché? Perché sono dannati, hanno il sangue agli occhi.