La moderna “melancholia” di Miriam Toews

Nel Medioevo la chiamavano melancholia. Uno stato psicologico alterato e persistente che, allora, soprattutto negli ultimi secoli prima della rivoluzione umanistica, era confinato nella sfera religiosa e oggetto di studio da parte di sacerdoti e di monaci.

La pazzia, la melancholia e i comportamenti che ne derivavano erano assimilati a una sorta di vizio morale, di idea degradante per il soggetto che ne era colpito e venivano inseriti in un discorso demonologico dove il diavolo era l’agente destabilizzante e portatore di nere forze che minavano l’equilibrio.

Il filosofo e medico Avicenna individuò una melancholia naturale e una innaturale, strutturandola in quattro distinte forme, come suggerito dalla teoria ippocratica dei quattro umori: sangue, flegma, bile gialla e bile nera (in greco antico mélaine cholé, bile atra).

La depressione nel Medioevo

Secondo un altro dotto arabo, Ishaq ibn Imran, era impossibile ricondurre la melancholia a una specifica definizione o patologia: bisognava concentrarsi sulla causa, questo umore scuro che produceva un venefico vapore che avrebbe in qualche modo, diffondendosi nel corpo, esercitato una pressione sul cervello, origine dello stato depressivo.

L’individuo colpito, per esempio, poteva darsi a una vita di eccessi nel bere e nel cibo o alterare lo stato di sonno/veglia: nei suoi organi si sarebbero depositate sostanze nocive che si trasformavano in qualcosa di atrabile, buio e tossico.

Oppure la persona malinconica non riusciva a elaborare una perdita o ad affrontare situazioni emotive impegnative, rifugiandosi infine nella paura e nell’isolamento. Torpore della personalità e inerzia, un taedium vitae irreparabile che, goccia dopo goccia, instilla una sensazione di stanchezza e di nausea. Nei casi estremi, si coltivano fantasie di morte e intenzioni suicide.

Il romanzo autobiografico di Miriam Toews

E una ferrea volontà di morte esprime Elfrieda Von Reisen, Elf per amici e familiari, una delle due protagoniste del romanzo autobiografico I miei piccoli dispiaceri, della canadese Miriam Toews.

L’opera ha vinto, in Italia e all’estero, diversi premi letterari, per la capacità dell’autrice di usare plurimi registri linguistici e tenere tutto insieme come un lungo discorso ininterrotto fra i personaggi della vicenda.

Nessuno è risolto, ognuno mette in scena la propria disfunzionalità e deve fare i conti con sensi di colpa gravi come macigni, con famiglie d’origine o create in età adulta che aggiungono problemi a quelli già esistenti e che ostacolano il libero arbitrio, la volontà di decidere del tempo e della gestione degli spazi e delle singole ore. Di oggetti, di animali e di case.

Coloro che ci circondano creano spesso, anche in modo inconsapevole, una trappola di accudimento e di attenzioni che si traduce in gabbia che costringe. In affetto tenero ma soffocante.

Il rapporto fra le sorelle Elf e Yoli

Elfrieda vuole chiamarsi fuori una volta per sempre e chiede all’amata sorella Yolandi di aiutarla a realizzare il proposito, senza essere giudicata o convinta a desistere. Yoli, l’io narrante, prova a ricomporre i frammenti di due esistenze, la propria e quella della sorella maggiore, che paiono sul punto di crollare. Facendo danni e seminando macerie.

Sono donne profondamente diverse: cresciute in una rigida comunità mennonita, guidata da vecchi integralisti che le controllavano a distanza e ne criticavano i comportamenti a loro dire fuori dal coro – perché Elf e Yoli studiavano, leggevano e rivendicavano il diritto a coltivare talenti e a spingere il naso oltre i claustrofobici confini del gruppo -, hanno cercato un senso e una direzione nell’arte.

Elfrieda, bellissima e talentuosa, è diventata pianista di fama mondiale e ha dato concerti fin dall’adolescenza, quando era partita per l’Europa e a Oslo, dopo essersi perfezionata, aveva iniziato una straordinaria carriera.

Tutti gli uomini, che la incontravano per caso o la sentivano dare vita a Rachmaninov e a Mozart solo sfiorando i tasti di uno strumento che è “la perfezione della voce umana”, come dirà il violinista ceco Radek, amante di Yoli ma che anni prima, a Praga, aveva ascoltato Elf a un concerto e ne era rimasto folgorato, si innamoravano di lei.

Due personalità e vite lontanissime

Yoli, al contrario, è una scrittrice e da tempo insegue l’affermazione letteraria. Pubblica libri per ragazzi in cui la protagonista è un’adolescente appassionata di cavalli e di rodei, però tali scelte la confinano in uno spazio editoriale di nicchia. Dovrebbe scavare nell’immaginazione e produrre qualcosa di più autentico, in cui i lettori si possano identificare. Deve uscire, come amano ripetere gli psicologi moderni, dalla sua “zona di conforto”, che comincia a odorare di mediocrità. Di risaputo.

Yoli è sciatta e approssimativa, anche nelle relazioni sentimentali: ha avuto due figli da due mariti diversi, intesse relazioni promiscue per ingannare la solitudine e si occupa, come riesce, della sgangherata famiglia d’origine. Il padre si era ucciso gettandosi sotto un treno, la madre oppone resistenza alla catastrofe organizzando brevi viaggi, giocando compulsivamente a Scarabeo e interferendo nell’esistenza delle figlie.

Elfrieda, soprattutto, suscita angoscia: all’apparenza possiede tutto, eppure non vuole vivere. Non un giorno di più. Ha già tentato il suicidio ed è stata salvata in extremis. Si è ripresa e ha assecondato i desideri altrui: assumere le pastiglie, ricominciare a nutrirsi e a tener fede agli impegni concertistici in giro per il mondo, un tour dopo l’altro.

Del resto, il marito Nic, la madre e la sorella, perfino Claudio, il suo agente italiano, sanno che Elf deve suonare proprio per non lasciarsi morire. Allontanarsi dai tasti lucidi di ebano e di avorio vuol dire perdere fiato, spegnersi in una pericolosa accidia.

Il pianoforte di vetro

Il pianoforte è l’unica medicina efficace per la crescente melancholia di Elfrieda, eppure è diventato anche carnefice. Mentre è ricoverata in ospedale, la giovane donna confessa a Yoli di avere un pianoforte di vetro dentro di sé. Un fragile cristallo che non riesce a gestire e che teme vada in pezzi. Il pianoforte che abita nell’anima è la malattia e la cura, due dimensioni irriducibili. Una esiste se l’altra fallisce o si dissolve se l’avversaria prevale. Sono due campioni schierati in campo per il duello finale. Non convivono, eppure Elfrieda confusamente percepisce di essere stata colonizzata dalla sua stessa passione. Non può smettere di suonare, ma l’arte a cui ha immolato le opere e i giorni, ebbene sì, la musica stessa la sfianca e ne massacra lo spirito vitale.

Come la delicata ballerina di Scarpette rosse, condannata da un improvvido patto faustiano a ballare fino alla morte, Elfrieda deve liberarsi dello strumento edenico e luciferino. O lei o il pianoforte di vetro. Qualcuno è costretto a partire, cadere fuori dal tempo e dallo spazio. Prima dell’esplosione.

Sceglie di andarsene lei e chiede alla sorella un estremo e scandaloso atto di pietas: accompagnarla a morire in una clinica svizzera. Ansia da prestazione, noia esistenziale e incapacità di fare spazio all’inevitabile banalità dei giorni, spesso uguali e senza guizzi nel loro susseguirsi? Qualsiasi sia la diagnosi psichiatrica, risulta parziale e non fa luce sui recessi invisibili del cuore grande di Elfrieda.

Una richiesta di aiuto inaccettabile

Forse un’anima, un talento, troppo espansi per un mondo piccolo che pretende compromessi: per alcuni umani, adattarsi ai riti e allo scorrere inane del tempo diventa un film dell’orrore. Conoscendone poi, come tutti, il finale. Elfrieda è stanca del gioco, ma nell’egoismo dei dolenti coinvolge chi le sta accanto.

La sorella minore va in crisi e si rifiuta, non accetterà mai di accompagnarla a morire al di là dell’oceano. Un’eutanasia senza essere afflitti da dolori incoercibili o da patologie terminali? Non è contemplata da Yoli.

E allora inizia la sua odissea privata in cerca di soluzioni in grado di arginare il triste furore di Elfrieda, convincerla a restare facendo leva sui residui sensi di colpa. Stanare alternative che ingannino la noia e le permettano di sedare l’ansia.

Con una scrittura leggera e al tempo stesso chirurgica nelle descrizioni, senza fronzoli e incline allo stile colloquiale, in una sorta di lungo flusso di coscienza che attraversa venti capitoli senza titolo, solo un numero a segnare le pause narrative, la Towes racconta il legame fra due sorelle e la loro lotta in nome dell’amore.

Ma tanto vale vivere…

Una chiede la complicità impossibile per realizzare l’autodistruzione, l’altra urla il suo diniego alla pulsione di morte. Non qui, non ora. Yoli non l’aiuterà, non andranno insieme a Zurigo, non rinuncerà alla persona con cui è cresciuta in simbiosi.

Erano loro due, da sempre: in viaggio tra il Canada e gli Stati Uniti con genitori affettuosi ed eccentrici; a scuola e a casa impegnate a conoscere filosofi contorti e a spiegarseli a vicenda.

In realtà era Elfrieda a fare da mentore a Yoli: da brava primogenita, la proteggeva e guidava nel mondo dei grandi, suggeriva libri e inventava mantra segreti, codici comunicativi da cui gli altri erano esclusi. Cose così, sorellanza tenace che vinceva le differenze e la competizione. Anche l’invidia era bandita. Elf realizzava sogni magnifici, Yoli combinava pasticci. Eppure ognuna di loro era orgogliosa della diversità dell’altra, ne traeva manna nutriente. E ora, Elfrieda, che scherzi sono questi, cosa mi combini?

Dorothy Parker, caustica giornalista di costume letta e ammirata dalle due ragazze, dopo avere passato in rassegna varie modalità, più o meno cruente, di togliersi la vita, concludeva ironica che “Tanto vale vivere”.

Perché darsi ottusa pena e imbarcarsi nella fatica di anticipare l’inevitabile? La morte è una divinità democratica e attenta, non lascia indietro nessuno. A Samarcanda riposa, beve un tè caldo, si stiracchia le membra e aspetta. Di là, passiamo tutti. Anche Yoli. Perfino Elfrieda. Un soffio e sei polvere di stelle. Però Yoli crede che ora sia presto e soprattutto ingiusto: Elfrieda non può e non deve andarsene, che si dichiari convinta o meno.

L’insopportabile banalità del quotidiano

Il titolo del romanzo è un omaggio al poeta inglese Coleridge che, evocando l’adorata sorella nell’opera To a friend. With an unfinished poem, dice che erano pazzi l’uno dell’altra e che lui le confidava i suoi piccoli dispiaceri. Solo a lei, alla sorella. Perché da lei soltanto venivano compresi e accolti.

La scrittrice canadese suggerisce che questa assurda e bislacca e tormentata cosa che chiamiamo vita non può essere spiegata o magistralmente suonata e squadernata in un profluvio di note come fa Elfrieda quando si avvicina al pianoforte.

Il quotidiano è privo di grazia, è un atroce ripetersi di frasi scontate e di gesti volgari, di parole gettate al vento. Piccoli ed evitabili dispiaceri, certo, o grandi e incurabili traumi.

Nella trama imperfetta dei giorni non s’incontrano solfeggi ed eleganti chiavi di violino. Per lo più si attraversa un guado di acque limacciose e invase da blocchi di ghiaccio che d’inverno scoppiano come spari, le acque del fiume in piena di Winnipeg, la città di provincia vicino alla quale sono cresciute le due donne.

Che cosa c’è là fuori?

Yoli, la sorella scombinata, sembra possedere un’arcaica saggezza che le permette di accettare, come scrive un disperato e giovane Montale, “il calcolo dei dadi” che non torna. I fili si aggrovigliano e se ne tiene, con fatica, un capo. Bisogna farselo bastare, prima che Atropo lo recida con un colpo netto di forbici. La bussola è impazzita davvero, per Elfrieda, non indica più la strada. O lei è diventata cieca, non riconosce i segni.

Ed io non so chi va e chi resta”, conclude il poeta, spaventato. Nemmeno Yoli sa, il varco è prossimo ma deve trattenere Elfrieda. Ancora un poco.

Perché, scrive Miriam Toews, c’è tanta magnificenza là fuori, una cornucopia da svuotare. Nonostante la Divina Indifferenza o forse in virtù di essa. Correre, finché resta fiato, verso il fuoco stanco del meriggio, animali moribondi e foglie secche.

Tanto vale vivere. Tanto vale ridere.