Quando la scrittura crea la storia

1960. Una donna intraprende un viaggio pericoloso in Germania Est. I documenti che si porta dietro e che le consentono di attraversare il confine dicono che la ragione del suo viaggio è un seminario di studio e che ha militato nel Partito comunista italiano. Ma si tratta di un cumulo di menzogne.

Comincia così Scrivimi dal confine, il nuovo romanzo di Luca Saltini appena pubblicato da Piemme. Che ha per protagonista Aimée, di cui il romanzo ripercorre tutta la vita, alternando il passato e il viaggio presente (la cui vera ragione verrà svelata solo alla fine), partendo proprio da un altro viaggio, altrettanto lungo, che la porta da Parigi, insieme a mamma e papà quando è solo una bambina, a un minuscolo borgo, il luogo natio del padre nella Valsolda, dove la famiglia di lui gestisce una vecchia osteria.

Mese dopo mese, anno dopo anno, la vita della bambina viene stravolta prima dalla morte della madre, poi dalla scomparsa del padre, inghiottito nelle trincee di Caporetto.

Quindi, ormai ragazza, la sua vita comincia a cambiare per il meglio dopo il trasferimento a Milano a servizio da una signora anziana che si lega sempre di più a lei… Ma qui ci fermiamo per non rovinare la lettura del romanzo.

Com’è nata questa storia?

Lavoro in una biblioteca (La Biblioteca Cantonale di Lugano come responsabile dell’attività culturale, ndr). Non sono a contatto con il pubblico, ma mi piace lasciare la porta dell’ufficio aperta e, di quando in quando, qualche anziano frequentatore viene a salutarmi, a condividere con me i suoi ricordi. Un giorno, uno di loro mi raccontò di sua mamma, una donna che era nata a Parigi e che, poi, era venuta a vivere nel Ticino e che, fin da giovanissima, aveva perso le tracce del padre… Una vicenda diversa da quella del romanzo, ma è da lì che ho cominciato a immaginarmi la vita di Aimée.

Perché questa storia le “parlava” abbastanza da decidere di volerne fare un romanzo?

Non lo so. Non sono capace di costruire una trama, procedo sempre in maniera molto libera. In questo, Scrivimi dal confine è stata un’eccezione, perché ho cominciato a lavorarci sapendo quale sarebbe stata la rivelazione alla fine del romanzo. A quel punto dovevo trovare il modo di arrivarci. Per me, il modo in cui scrivo è fondamentale: ogni libro deve avere una sua scrittura. Una volta trovata, comincio a immaginare la storia. A vedere delle situazioni: lei a Parigi, il suo viaggio verso l’Italia…

L’ambientazione in Valsolda, in provincia di Como, è stata importante da questo punto di vista?

È una zona che conosco bene, una vallata molto piccola, raccolta. Da Lugano in linea d’aria è vicinissima e vado spesso a camminare sui monti lì intorno. Ma, per dire quanto forte sia il potere della scrittura, mentre scrivevo ogni volta che, da casa, guardavo la Valsolda provavo nostalgia, come se lì ci fossero persone care che mi aspettavano.

Nel romanzo ci sono quattro lingue.

Il francese, il tedesco, l’italiano e la parlata dialettale della zona. Ma non è tanto una questione di lingue. La scrittura è la lente attraverso la quale guardi il mondo. Quello che pensi, il tuo giudizio passa attraverso la descrizione. Almeno, per me funziona così. Come diceva Flannery O’Connor: non parli di persone, azioni, ma con persone e azioni.

Ho letto che ha cominciato con racconti per bambini.

In realtà, no. Ho sempre desiderato essere un narratore, il mio primo romanzo l’ho scritto in prima media. Ma pensavo che non avrei potuto vivere facendo lo scrittore, che dovevo trovarmi un lavoro “vero”. Per tanti anni ho fatto ricerca storica perché mi pagavano per farlo, ho scritto articoli perché mi pagavano per farlo e racconti per l’infanzia perché li vendevo alla radio e ai giornali. Intanto scrivevo romanzi. Solo che facevo fatica a dedicarmici in mezzo ad altri mille impegni. Ho perso tanto tempo. Il primo libro che ho pubblicato, Tattoo, in realtà era il quarto che avevo scritto. È uscito che avevo già 38 anni.

Si è pentito?

Forse sì. Ma, in fondo, sono anche contento del mio percorso. Sono partito da niente. Pensi che mandai una raccomandata ad Antonio Franchini con dentro un inedito: dopo un anno mi ha chiamato. Passare a Giunti con il mio precedente romanzo, Una piccola fedeltà, è stata una svolta. Certo se mi fossi trovato a questo punto dieci anni fa sarebbe stato diverso.

Che romanzo era quello della prima media?

Un fantasy. Mi piacevano moltissimo. E, poi, avevo scritto un librogame. Un genere che era piuttosto popolare fra i ragazzi negli anni Ottanta. I libri erano suddivisi in capitoli numerati ed era come se il lettore fosse il protagonista della storia. Di fronte a una certa situazione dovevi decidere che cosa fare e saltare al capitolo relativo.

Il secondo libro che ha pubblicato, Il demolitore di camper, è diventato anche un film.

Che è uscito due anni fa. Diretto da un regista svizzero-tedesco, Robert Ralston.

Con, tra gli altri, l’attrice Milena Vukotic. L’ha conosciuta?

Sì, ed è una donna dolcissima. La incontrai una sera a una cena col cast. Nonostante si capisse che era molto stanca parlammo per un po’, fu molto carina.

Le capita mai di immaginare chi potrebbero essere gli attori della versione cinematografica dei suoi romanzi?

No, no. Una volta che ho finito, basta, mi distacco dalla storia. Anche perché la scrittura per me ha un grosso peso emotivo. Faccio fatica a seguire la pubblicazione, la promozione. Sto al gioco, ovvio, ma è come se l’amore fosse finito.

Il romanzo alterna i piani temporali, dall’inizio del secolo agli anni Sessanta. Come la ha scritto?

Prima ho finito tutta la vicenda storica, partendo da quando Aimée era bambina, poi adolescente e così via. Dopo ho scritto la parte del suo viaggio in Germania Est negli anni Sessanta.

Lo ha fatto di notte considerato che di giorno lavora?

Uso tutti i momenti liberi. Se sono tre ore bene, se ho dieci minuti, va bene lo stesso. L’importante è la continuità. Se, invece, capita di dover interrompere per settimane, riprendere diventa faticoso.

Domanda che ogni giornalista fa e che ogni scrittore odia: Qual è il messaggio del suo libro? O almeno il sentimento che vuole comunicare?

Il messaggio è organico alla scrittura e al racconto nella sua interezza. Detto ciò, a me questa storia ha dato una grande emozione. È la vicenda di una bambina che si trova a vivere situazioni difficili, ma che, lungo il suo percorso, incontra persone che le vogliono bene e che l’aiutano, in questo modo, a voler bene a se stessa. Ivano, l’anziano pastore che vive da solo e che si lega immediatamente a lei, lo avevo messo lì come un personaggio di contorno, una figurina. Tant’è vero che gli avevo scelto un nome che non mi piace. Eppure nel corso della scrittura mi ha affascinato, intenerito. Vedevo i suoi gesti. Lui è l’amore nella vita della piccola Aimée. Quando lei ha bisogno, c’è sempre. E quando, da ragazza, si trasferisce a vivere a Milano, anche lì trova la vecchia signora dalla quale va a servizio che le vuole bene e l’aiuta a sbocciare. Il successo di questa donna è avere intorno persone che la amano, da adulta il marito, i figli. La invidio molto.

La vecchia signora e Aimée creano un legame grazie alla lettura. Un modo per sottolineare il potere della parola, del racconto?

In realtà mi è venuto spontaneo immaginare che potessero avvicinarsi grazie ai libri. Con i miei figli, il momento della lettura è sempre stato importante, intenso. Solo dopo mi sono reso conto di essere stato influenzato inconsciamente da Elias Canetti che ne La lingua salvata racconta il rapporto con la madre, le loro letture. Per dire come la scrittura scava nell’inconscio…

Quali sono i libri che l’hanno formata?

Dal punto di vista della scrittura, quelli di Flannery O’Connor. Ricordo un giorno, avevo mille cose da fare, ma mi era capitato di leggere una notizia su di lei e mi ero incuriosito. La cercai su Google e trovai il PDF di una sua conferenza, la stessa che è stata pubblicata nella raccolta Nel territorio del diavolo: mi bastarono poche righe per capire che non c’era nulla di più importante che potessi fare in quel momento se non andare avanti a leggere. Lì ho preso coscienza di quello che vuol dire scrivere. Ma non posso dire che sia un’ispirazione per i miei libri.

Altri autori?

John Fante, Céline… È vero che ha scritto cose deprecabili sugli ebrei, ma aveva un immaginario così potente – penso a Morte a credito ancor più che a Viaggio al termine della notte – che a me basta una pagina a scatenarmi la fantasia. Ma parliamo di autori che stimo o che mi hanno ispirato? Perché, per esempio, ho amato moltissimo John Steinbeck, ma non posso dire che sia una fonte di ispirazione.

Diciamo libri che ama leggere.

Mi piacciono gli autori viscerali, non mentali: Pavese, Simenon, Conrad. Anche Philip Roth, che ha momenti narrativi forti. E, di recente, ho scoperto Pete Dexter. Il suo romanzo Così si muore a God’s Pocket l’ho trovato molto bello.