Travolti da un insolito destino aragonese

Maso Barrese, il macellaio, aveva messo in conto di non lasciare un buon ricordo nella storia, godeva della propria crudeltà, il pane della sua sopravvivenza, sapeva che di lui sarebbe rimasta quella. Insieme ai suoi mercenari albanesi spense le rivolte angioine e ridiede solidità al dominio aragonese. Non sapeva che la sua stirpe padrona avrebbe messo fuori dalla storia il Sud, lo avrebbe reso irredimibile, condannandolo alla narrazione del pianto, alla litania del vinto. Gli aragonesi figliarono Verga, i letterati si dedicarono al resoconto e nacquero gli scriba; altro sarebbe stato il destino, quantomeno letterario, con gli angioini: la fantasia, la visione, avrebbero fermato la deriva di un popolo, l’avrebbero tenuto dentro la storia, e nel grembo della redenzione e del riscatto. Giuseppe Lupo, La storia senza redenzione, (Rubbettino, 2021), prova a immaginare una letteratura, e un Sud, con una matrice diversa, senza Verga e il verismo: analizza due secoli di storia letteraria.

Si capisce che l’impresa sarebbe difficilissima anche per numerosissimi autori messi insieme, per una molteplicità di saggi: servirebbe una vita solo per leggere, e un’altra per interpretare, provare conclusioni. Un saggio di 288 pagine può solo fare da sasso nello stagno, accendere una discussione. Provare il coraggio dell’autore. Da questo punto di vista il libro di Lupo è importante, riveste quella caratteristica che con termine retorico e abusato si definisce necessarietà. Poi, la critica diventa come fosse una cucina: trasforma pietanze e le può servire come aggrada alla fantasia del cuoco. La critica del critico si presta a qualunque critica. C’è troppa velocità, brevità di testo, infinita carne al fuoco perché non rimanga nel lettore un senso di confusione, il disordine è un rischio che si deve correre, accettare, e la materia può avere interpretazioni diverse, persino antitetiche rispetto alle conclusioni dell’autore. E in una tale impresa la mancanza ne diventa l’elemento dirimente, alla fine due secoli di letteratura meridionale si solidificano nell’analisi di alcune delle opere di Carlo Levi, e solo in una parte dei suoi aspetti. La questione letteraria da meridionale si rimpicciolisce a questione letteraria lucana, il testo critico diventa basilischico-centrico e molto si risolve in chi butto giù dalla torre, antilevi-prolevi. Svanisce Napoli, la Campania, la Sicilia, la Calabria, la Puglia. Cosa sono due secoli letterari senza Eduardo De Filippo, con Pirandello di striscio, costole di Sciascia e di Alvaro? Gramsci, Bene, Leone, Leogrande, Rosi…e anche sul versante opposto, del bene, basta Nigro per comprendere quanto sarebbe stata diversa, e migliore, una letteratura di matrice angioina?

E davvero, è certo, Lupo, che la matrice letteraria totalizzante sia stata quella aragonese? Che in Levi o in Sciascia ci sia solo resoconto? Non è western, ultramoderno Il giorno della civetta? Esiste uno Sciascia che va ben oltre il ’48, che è profetico, anticipa i tempi, un autore che supera l’autore e sorge dalle opere per vincere: il resoconto, la verità, sono mezzi per stare nella storia, determinarla, non subirla. I contadini di Levi mitizzati e riconosciuti dai vietnamiti, dagli africani, sono dentro la storia, c’è un Levi del Cristo ma pure un Levi de L’orologio. E stanno un po’ dentro D’Angiò e un po’ dentro gli Aragona la maggior parte dei letterati meridionali, gli stanno dentro e vanno oltre, a volte Verga lo ammazzano e altre gli chiedono di risorgere. Saverio Montalto resocontando spiega con quasi un secolo d’anticipo le trasformazioni sociali, l’impatto delle dinamiche criminali; la fantasia di Giuseppe Occhiato, da Oga Magoga allo Sdiregno, sta fra gli angioini o gli aragonesi?

E se il Meridione è fuori dalla storia, la letteratura degli ultimi due secoli va analizzata, ma forse non basta la dicotomia viaria. Magari nemmeno la declinazione angioina avrebbe portato soluzioni miracolose, e il problema fondamentale rimane quello sollevato da Franco Cassano, anche lui saltato d’un balzo: l’incapacità di costruire un Sud che sia pensiero, un pensiero autonomo, buono a portare il Meridione dentro la storia, non come comparsa. Più che di tesi esplicite, il libro di Lupo è un’opera di retrogusti, di intenzioni non completamente espresse: la sensazione è quella di un regolamento di conti letterario interno alla Lucania: la necessità di uccidere i padri. Andare oltre l’ingombro di Levi. E un regolamento di conti esterno: andare oltre una letteratura realista o neorealista che, complice gli accadimenti epocali di tipo cronachistico, ha occupato la scena degli ultimi decenni con una prevalenza maldigerita del noir, ma che letteratura ci sarebbe stata senza Gomorra? Il primo Carofiglio è aragonese o angioino? La domanda che rimane, a lettura conclusa, è: Se ora alla parola Neorealismo parte il che palle dell’intellettuale che ha capito tutto, mentre Martin Scorsese ancora ringrazia quella stagione, chi è che ha un problema?