La lettura ti fa bella

Fernando Botero è morto. Viva Fernando Botero! Lo scultore e pittore colombiano, caduto fuori dal mondo il 15 settembre scorso a oltre novant’anni, a chi gli chiedeva perché spesso rappresentasse donne sfatte e obese, rispondeva serafico: “Non dipingo donne grasse. Io faccio uomini, animali, paesaggi, frutta, con lo scopo di comunicare sensualità alla forma. A me piace trasmettere questa pienezza, questa generosità, questa sensualità, perché la realtà è arida”.

Figlio di una terra estrema e spesso incomprensibile al di là degli oceani, di tutti i mari possibili perché forse essa stessa un’illusione ottica, un prodotto del realismo magico con cui seduce chi cerca di conoscerla uscendone vinto, l’artista ha celebrato il corpo femminile come se fosse un idolo a cui rendere grazie.

La forma e le parole

Da mettere in scena senza falsi pudori o pruriginosa malizia. Botero era il famulo devoto di una divinità multiforme, che necessita solo di colori impastati in modi mai febbrili. Le campiture restano piatte e uniformi, assente ogni ombreggiatura, per non sporcare la sua idea di sfumature cromatiche e la dilatazione insolita che i personaggi acquistano sulle tele.

Le sue donne senza confini hanno spesso un volume tra le mani e leggono assorte. In morbide poltrone di un salotto borghese o sdraiate di traverso su un letto sfatto. Nude su un prato dai toni accesi o paludate in abiti da lavoro che amplificano forme e pensieri.

Sempre, loro accanto, uno o più libri. Non conoscono la solitudine, le donne di Botero dagli occhi grandi: in compagnia di parole scritte, proprie e altrui, hanno il controllo sul tempo e sullo spazio. Non saranno sole mai più.

La seduzione tra le pagine

Ispirano simpatia e tenerezza, ma dai corpi iperbolici promana anche un’intensa sensualità: curioso come Botero abbia dedicato alle donne lettrici non un quadro ma diversi, come se ritenesse l’atto di leggere un valore aggiunto, che conferisce bellezza e moltiplica, che ne siano o meno consapevoli, il potere seduttivo di tali creature.

Sono donne ipnotiche che suggeriscono deliqui erotici e infiniti piaceri, proprio perché sprofondate fra le parole di un libro – sembra suggerire l’artista – e non come alternativa al gesto intellettuale.

Spesso il luogo comune vuole che esista una dicotomia tra attività del pensiero e sessualità potente e agìta, come se le due dimensioni non fossero conciliabili. Niente di più falso: il pittore colombiano crea femmine opulente che della vita tutto divorano e accolgono, parole e carne, poesia e fremiti inconfessabili.

La passione per il femminile

Solo un uomo profondamente innamorato dell’universo muliebre comprende e al mondo regala tale comunione: i corpi deformati sono quasi oggetto di culto perché, come amava ripetere quando interrogato sugli artisti che lo avevano influenzato, “la grandezza delle figure e degli elementi che compongono i miei quadri non segue le regole della prospettiva, ma mi serve semplicemente per creare un’armonia generale”.

Una religione, dunque. Un rito misterico dove ogni elemento si tiene e si giustifica: gli sguardi fissi e le pose statiche parlano di una sospensione incantata ed enigmatica. Figure monumentali e piccoli libri da accarezzare con cura. Una dimensione metafisica e improbabile, in cui dissolversi e ritrovare la pace.

Una di loro – mi piace pensare – si chiama Emma, o forse no. Si sente invisibile e magari lo è davvero. Chissà se è mai esistita o se è l’eterno femminino di un poeta volante? Un aedo fantasma. Forse.

 


 

Non se ne accorse subito, Emma, eppure era sparita. Si alzò un mattino di fine primavera, dolori alle giunture e un orgiastico bisogno di caffè. Nero e bollente, da sempre. Amaro soprattutto, perché la perfetta bevanda degli dèi guatemaltechi non poteva – disgusto! – tollerare colonizzatori. Esterne invasioni che, come accade in ogni “sacco” dal secolo quinto dell’era cristiana e amen, sciolgono la perfezione originaria in volgari cumuli di macerie. Odore di marcio e grasso che cola.

Il grasso, ecco. Nel regale caffè neppure un’oncia, tutto avrebbe rovinato. La miscela del colore di Ade rifiuta connubi, è culto monoteista. Emma, dunque, non avrebbe potuto accettare il grasso di inutile latte o rancida panna nella mattutina pozione. E lui, per vendicarsi dell’oltraggio, ne fece preda. Di corpo e cuore. Si era nei mesi, caduti in lustri poi, stratificato. A pensieri e ad articolazioni aggrappato. Emma sentiva l’agguato e provava a distrarsi. “Se lo ignoro”, diceva tra sé, “magari sparisce. Offeso, colonizza e pianta vessilli in corpi diversi. Più giovani e forti. Resilienti”.

“Io – Emma rifletteva, mentre un’altra buona moka sul fuoco bolliva – non ho più armi con cui riprendere la pugna alla pari. Ho perso il brando, corazza ed elmo incrinati. Negli anni, arrugginiti. Smarrito è il sentiero. Del resto, nihil novi sub sole, giusto?”. Emma sapeva, memorava i ridicoli smarrimenti dei cavalieri “inesistenti”, degli eroi dannati e abbassati dal poeta al servizio degli Estensi. Ecco, anche lei disarmata chiedeva una tregua all’ospite indesiderato. Ogni mattina, però, lui si presentava ai piedi del letto. Con ghigno l’attendeva.

“Andiamo insieme nel mondo, ti ho fatto un dono immenso e manco mi ringrazi!”, urlava il grasso demone. Il dono, il dono?? Di cosa stava blaterando mai?

“L’invisibilità, non ti sei accorta? Prodigio per pochi, sei stata eletta. Nessuno ti vede più. Ma manco uno, eh? Centomila ti passano da tempo accanto. Qualcuno, pensa, ad attraversarti ha perfino provato. Manco tu fossi gli ectoplasmi cantati dal tosco. Uno, nessuno e centomila hanno cercato anche loro non dico tre volte ad abbracciarti, come il pio Enea col padre amato, ma a girarti intorno. Sei una sfera immensa e sfatta, ormai. Luna di Giove. Ma non così pura e accesa di stelle. Solo occupi spazio e riempi buchi neri”.

“Cattivo maledetto demone, Gollum adiposo, perché m’insulti, mi umili? E ancora e ancora?” “Donna insulsa e ingrata. Ti ho fatto un regalo e invece di offrirmi libagioni – le hai già tutte divorate, giusto? Mai fidarsi di bulimiche creature, pazza e vorace che sei! -, mi tratti male. E piangi, inutile e noiosa. Però in tua compagnia cotidie mi diverto. Invisibile. Che risate, sai? Una volta eri bella e fresca, emettevi luce. Davi fastidio. Contrappasso, ci vuole nemesi. Se tutti ti guardano, che invisibilità infine sia”.

Emma ricordava, ora. Vagamente, a essere sinceri. Ci fu mai un tempo di leggerezza? Ci fu un tempo di sguardi e di desiderio? Chissà. Tutto può essere stato. Forse era persino già morta e manco se n’era accorta. Però quel grasso, tutto quel peso, dentro e fuori, diceva il contrario. No, morta no. Non ancora. Il naviglio di Flegiàs sarebbe sprofondato oltre lo Stige. Emma stava per uscire di casa con l’ospite inatteso ma diventato ormai, in saecula saeculorum, convitato di pietra. Un’idea la colpì. Piccola, niente di che. Una fioca illuminazione. Via i vestiti, anch’essi ormai privi di forma. Via orpelli e calzature. Via ogni cosa. Il grasso esposto al mondo.

Se invisibile dev’essere, che sia così. Come alla genesi, come nel giardino dell’inizio. Prese con sé una manciata di libri. I fidanzati. Amanti fedeli, che di nudità si pascono. Eccitati e lieti, l’accompagnavano ovunque, loro. Ne aprì uno a metà e se lo collocò in testa, per ripararsi dal sole. Era Boll, credo. Opinioni di un clown, mai titolo più adatto. Altri due o tre (Commentari di Cesare? Certo, più La vita di Agricola, non tedia mai e smuove pensieri) li dispose lungo i grassi avambracci. Sofocle e Seneca, gelosi rivali, fecero a gara per coprirle le gambe, come colonne erculee. Pancia scoperta, sesso al vento, che importa? Nessuno vede. Ma il buon vecchio Cioràn, che dai tempi del liceo in silenzio l’amava, pudìco coprì con La tentazione di esistere quel che secondo lui, un filo moralista figlio dei Carpazi, celato doveva rimanere. Poi basta, basta! La donna invisibile, piena di tutto ciò che le serviva, da devoti amanti ricoperta, scese per strada e camminò a testa alta. L’ottuso demone ovviamente non la lasciò. Laido e sconcio, solo più perplesso, l’avvolgeva. Testimone feroce dell’invisibilità di Emma che sì, qual gioia! continuava a non essere vista. Nemmeno per sbaglio scorta, non sia mai. Eppure qualcuno – pochi, va detto, di umani una manciata – a un certo punto si fermò a osservarla. O meglio, a guardare, curioso, i titoli sui dorsi di copertine lise da lunga frequentazione. E questo Boll? si chiedevano. Parla di circhi. Può essermi utile per un regalo. Cioràn, che nome strano. Ha scritto altro? Potrebbe fare al caso mio, ha un che di esotico. E così via, per ore. Poi giorni, mesi…

La donna invisibile, sfatta e nuda e grassa e vecchia, ormai, non si fermò più. Con i suoi fidanzati devoti attraversò pianure e steppe, a fatica scavalcò dune e colline violette. Ma continuò il percorso, piena. Di grasso, certo. Improvvisamente, anche di senso. Perché a ogni suo, loro passaggio, le librerie si riempivano, le bancarelle di testi usati si svuotavano. Le parole occupavano spazio. E lo tenevano, come castra inviolabili. Emma, la nostra immensa eppure invisibile luna di Giove, riuscì a rotolare – ma ridendo, sempre ridendo forte e in faccia a Gollum – fino a Samarra. Lì si posò sul bordo di un marciapiede. Prese fiato, bevve un tè verde. Caldo come a lei piaceva. Sempre troppo zucchero, maledizione. Però era buono. Samarra era luce azzurra. Era arrivata.

La trovarono all’alba. Invisibile davvero, ora, accasciata come un sacco. Vuoto, no. Inane. Rimanevano gli amanti, a coprirla. Quando portarono via quel corpo pesante e senza moto proprio, qualcuno – ma forse è già leggenda – intravide due lacrime su Squartamento, gli aforismi del filosofo rumeno. Si sa, del resto, che a Est perfino gli uomini sono troppo emotivi. E troppo bevono.

E poi, dài, era un filosofo. Che altro vuoi aspettarti?