Vivere per raccontarla o raccontarla per vivere?

Mettete subito da parte la tentazione di definire il libro di Veronica Raimo, un romanzo di formazione. A meno di non voler mettere nella stessa categoria certi racconti di Woody Allen in cui descrive la sua (presunta) infanzia a Coney Island.

Niente di vero, il titolo del libro, infatti, è messo lì apposta per confondere subito le idee. Perché, già dalle prime pagine, Raimo sembra parlare proprio di sé, una scrittrice, con un fratello scrittore anche lui.

Una doppia sfiga, verrebbe da dire considerata la sua dichiarazione in apertura: “Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita, si dice. In realtà la famiglia se la caverà alla grande, come è sempre stato dall’alba dei tempi, mentre sarà lo scrittore a fare una brutta fine nel tentativo disperato di uccidere madri, padri e fratelli, per poi ritrovarseli inesorabilmente vivi”.

Vere o no, o magari solo in parte, le storie che racconta sono divertenti perché scritte bene. E lo sono, perché alimentate da buone letture, alimentate a loro volta da (all’epoca inconsapevoli) buone “forzate” letture, rimedio a un’infanzia impregnata di noia e di paranoia (dei genitori): “Grazie alla ferrea educazione dei miei genitori, né io né mio fratello abbiamo mai imparato a fare quelle cose spericolate come nuotare, andare in bicicletta, pattinare, saltare alla corda (era un attimo annegare, spaccarsi il cranio, rompersi una gamba, finire impiccati). Abbiamo passato l’infanzia chiusi dentro casa a romperci le palle”, scrive Raimo.

E a leggere, appunto: “La scoperta dei libri, non fu una forma di evasione, piuttosto una rasserenante coalescenza di noia. Riuscivo quasi a visualizzarla, bianca e melmosa: leggere era come sprofondare in un acquitrino di latte. Restavo immersa per ore, fin quando pure il corpo si faceva flaccido, con l’acqua stagnante che penetrava nei pori. Sentivo che all’improvviso tutto acquistava un senso, un fenomeno di transustanziazione, la mia carne diventava noia”.

I libri entrano così a far parte della sua vita e ne diventano parte della trama. Tanto che, quando al liceo, quando arriva il momento di individuare la sua migliore amica, tra le discriminanti ci sono proprio le letture: “Cecilia (…) era molto più alta di me, disegnava molto meglio di me e soprattutto aveva letto più libri, cosa che non mi era mai capitata con una coetanea. Perdere quel primato, anziché ferirmi nell’orgoglio, riuscì finalmente a riscattare i libri dal pantano di noia e dal monopolio di quello che consideravo semplicemente un affare di famiglia. Cecilia non leggeva solo i libri che trovava a casa, non li subiva come una forma di successione imposta, ma li comprava. Aveva già sviluppato dei gusti personali, ed è stata lei – ad esempio – a farmi scoprire Philip Roth”.

Non mancano ovviamente le pagine dedicare alla scrittura (Raimo è anche una traduttrice). Attività che preferisce svolgere in appartamenti altrui: “Amo vivere nelle case degli altri. Scoprire i loro libri, i loro dischi, i loro gadget erotici, gli orgasmi dei loro vicini, usare il loro shampoo, bere il caffè nelle loro tazzine. Quel senso di straniamento mi fa sentire me stessa. Contrariamente al diavolo con le sue pentole, ho sempre preso alla lettera il detto: «Prova a metterti nei panni degli altri». Mi trovo bene in quei panni, apro armadi sconosciuti e mi infilo quello che c’è. Mi guardo allo specchio e mi riconosco”.

Le pagine dei suoi romanzi s’intrecciano alla metratura degli appartamenti e alle storie dei loro proprietari: “Il romanzo l’ho finito nei centotrenta metri quadri dell’appartamento vuoto di una coppia che si era appena separata. C’erano solo un letto, una scrivania e gli scatoloni già imballati con scritto: «Ship to Sarah». Sarah si era trasferita a San Francisco. Sulla scrivania c’era una sua struggente lettera d’addio e le bollette da pagare. Ho pianto sulla fine di un amore prima del suo destinatario”.

Infine, con un fratello scrittore pure lui, non potevano mancare pagine in cui ridere e far ridere del destino atroce di avere – come dicevamo all’inizio – non uno, bensì due scrittori in una sola famiglia di quattro persone. Dai momenti di mercenaria collaborazione: “Negli anni ci eravamo subappaltati articoli, recensioni, prefazioni, postfazioni, punti di vista da scrittore sul ritorno dei leggings o sulla fine del romanzo, persino interi racconti e ispiratissimi versi. Il tariffario cambiava a seconda dello stato economico o dell’ansia da consegna in cui ci trovavamo al momento, fino ad arrivare a rasentare lo strozzinaggio nei periodi di emergenza”.

Fino all’aperta competizione: “Qualche tempo fa ho mandato la prima parte di questo libro a mio fratello. Lui mi ha risposto con un messaggio commovente e un altro in cui mi diceva che l’aveva fatto leggere alla sua fidanzata, si era divertita. (…) Poi, un paio di settimane dopo, mi ha annunciato che stava scrivendo un romanzo sulla nostra famiglia. L’ho presa male. (…) Invidiavo i fratelli che litigavano per un’eredità, per una casa, mi sembrava una faccenda più dignitosa. Uno dei contendenti alla fine avrebbe ottenuto qualcosa”.