Tina Pica, il nostro angelo custode

Tu sarai eremita quando io sarò badessa. (Pane, amore e…, Dino Risi, 1955)

Tenere testa al cinema a Totò, a Peppino, a Vittorio De Sica, alla Loren, a Franca Valeri, a Sordi, era quasi impossibile. Se non eri almeno loro pari, ti fagocitavano. Non per cattiveria, e nemmeno perché, come attori, erano più bravi o più belli, no. Era una questione di carisma, puro e semplice, e questa donnetta minuta e spigolosa, nata poco prima della fine dell’800 e che avrebbe superato due guerre mondiali, una pandemia e numerosi lutti personali, il carisma ce l’aveva eccome. Tina Pica, nata (ovviamente, a Napoli) Concetta Luisa Annunziata Pica era una che non bucava lo schermo: lo riempiva. E ci riusciva sempre rifiutando il ruolo da protagonista, anche quando la protagonista del film era lei. Non c’è una volta in cui non prenda il comando di una scena, di un dialogo. Perché Tina Pica era una moralizzatrice buona, una che ti riportava, sempre, chiunque tu fossi, sulla terra. Per fisico e tono di voce, sulle prime, dava sempre l’impressione di bizzoca, perché era esattamente quello che voleva fare: voleva che tu, spettatore, la pensassi bigotta, solo per poi colpirti con la sua personale realpolitik tutt’altro che da parrocchia. Quando, in Pane, Amore e Fantasia (Luigi Comencini, 1953), De Sica le chiede se il paese lo trova simpatico, risponde che sì, e quando il Maresciallo insiste e le chiede chi, esattamente, pensa che sia simpatico, risponde, muovendo allusivamente le mani in circolo: la gente, la gente. Ecco, da quel momento Tina Pica diventa la guardiana della dignità. È un ruolo, quella del cerbero benefico, che interpreterà con una bravura mai vista prima e purtroppo, mai più vista in seguito. Ma la dignità che difende non è quella femminile: non ne ha bisogno. Semmai si fa carico dei maschi, che lei tratta come dei deficienti da tenere al guinzaglio per evitar loro brutte figure e sciagure sociali. Così, appunto, in Pane, Amore e…, prende sotto la sua ala un ormai definitivamente rimbambito Carotenuto Cavalier Antonio, ormai in congedo illimitato dall’Arma e al comando dei Metropolitani (che poi sarebbero i Vigili Urbani) di Sorrento e, mentre lui si è ormai invaghito di Donna Sofia la Smargiassa e minaccia di sposarla, lei tifa per Lea Padovani, la padrona di casa bigotta ma piacente e in calore; non perché preferisca Donna Violante alla Smargiassa. È che sa che De Sica è un povero scemo che non reggerebbe la Loren per più di un mese. Viceversa, lo indirizza verso la benestante (appartamento con terrazza panoramica sugli aranceti in fiore) Violante. Lo salva da sé stesso, insomma, e lo indirizza verso una vecchiaia che vale per tutti, ma mai per lei.

E fa lo stesso in Buonanotte… avvocato! (Giorgio Bianchi, 1955). Giulietta Masina, in partenza per un fine settimana, non si fida a lasciare incustodito Alberto Sordi, nei panni di un avvocato ciuccio con velleità da seduttore, e allora lo lascia a Tina Pica, che immediatamente chiude il mobile bar e nasconde le chiavi. Perché Sordi, l’avvocato, si è già organizzato una seratina in compagnia del suo compare Vittorio (Caprioli, chi altri?) e di due procaci fanciulle. E quando la Masina trova una forcella e Sordi tenta di dire che appartiene a Tina Pica, lei ribatte, pronta:

Non è mia! Forcella frivola, profumi, rossetto: vade retro Satana! Io mi batto il petto!

Lei non vuole, mai, difendere una morale che -si vede- non le è mai appartenuta. Anzi, nei suoi occhi ogni tanto balena la luce di amori passati, di voglie più che soddisfatte. Non è mai la vecchietta irrisolta. È profondamente maschilista, proprio perché i maschi li conosce bene e sa che fondamentalmente sono dei babbei inaffidabili, pronti a vendersi la casa paterna per correre dietro alla prima canzonettista che gli fa gli occhi dolci. Lei non ha il dovere di mantenere lo status quo: sente invece quello di proteggerli dalla loro completa inettitudine. Ha rispetto della Smagiassa; da donna vissuta, sa che la pesciaiola sta soltanto difendendo il suo appartamentino in fitto, facendo gli occhi dolci al vecchio milite, ma sente comunque il bisogno di difendere il più debole: Antonio Carotenuto, per l’appunto. Difende anche Sordi, cerca di impedirgli di uscire di casa in assenza della moglie, non perché teme che lui le faccia le corna, ma perché è certa che, cretino com’è, si caccerà in qualche impiccio. Cosa che puntualmente succede.

Solo una volta sembra che ce l’abbia con i maschi: è ne La Nonna Sabella (Dino Risi, 1957) e nel seguito, La nipote Sabella (Giorgio Bianchi, 1958). Lì cerca di impedire un doppio matrimonio: quello della sorella scema, Carmela (una fenomenale Dolores Palumbo) con Emilio Mescogliano detto Garofanino (Peppino De Filippo in stato di grazia) e quello del nipote Raffaele (Renato Salvatori pre-Girardot) con la nipote di Garofanino, Lucia, interpretata da Sylva Koscina. Ma anche nei panni della feroce Sabella, non è la morale che tenta di difendere: è il patrimonio. Non vuole che la sorella sposi Garofanino perché è cretino: lei lo sa che è cretino, e non le importa niente. È che è uno spiantato. E non ha assolutamente niente contro Lucia, se non il fatto che è nipote di uno spiantato, e lei deve difendere il futuro dei suoi. Con la sorella quasi ci riesce, tenendola legata a sé in un rapporto morboso di dipendenza. E’ il giovane nipote, fresco laureato, che la preoccupa. Come De Sica in Pane, amore e…, rischia un futuro da poveraccio, pieno di tribolazioni, e cerca di piazzarlo con la figlia scema di un notabile del luogo. Come a dire, se non ci penso io, a te, tu in due giorni vai a gambe all’aria, altro che amore romantico.

Tina Pica è il nostro angelo custode, quella che quando ci vede uscire dal cinema dopo western camminando come John Wayne, con le mani su due pistole immaginarie, ci squadra con compassione e ci dice: Ma sei scemo?

E’ quella che, quando siamo al massimo della stupidità, fingendoci giovani Werther, declamiamo ad alta voce, sospirando: Fratello, ricordati che devi morire!, ci guarda come fossimo i fessi che siamo e ci dice:

Fratello, vatti a coricare.

E se ne va.