Gli intellettuali della Chiesa Rossa

Convenevoli, attualità e posate d’argento. Luis Buñuel l’aveva capito con qualche decennio d’anticipo, grazie a L’angelo sterminatore: non c’è miglior modo per inchiodare una classe sociale ai propri difetti se non lasciarla senza via di scampo a una festa. Se il regista spagnolo sceglie di intrappolare l’alta borghesia in una cena di gala, prigioniera delle proprie eccentricità e istituzioni, Ettore Scola quasi vent’anni più tardi cattura e concentra l’indagine ne La Terrazza (1980) sui «privilegiati depressi»: gli intellettuali. Durante un ricevimento, giornalisti, critici e sceneggiatori si provocano e tartassano, si celebrano, si compatiscono e cadono, discutendo, in banalità da chiacchiera a cui non pensano di appartenere. Se uno scontro sembra portare finalmente a un rovesciamento delle loro dinamiche e a una resa dei conti, ecco che puntuale irrompe nella scena un deus ex machina per disinnescare la tensione, lo stratagemma che Ugo Gregoretti introduce guardando in camera: «A questo punto io farei arrivare una padrona di casa che dice: il pranzo è servito».

Palmiro Togliatti - Foto Archivio Collezione Garzia
Palmiro Togliatti – Foto Archivio Collezione Garzia

E proprio come i borghesi di Buñuel, che per superare la crisi si rifugiano in una cattedrale, cercando nella preghiera e nel clero una guida e un’istituzione, anche gli smarriti intellettuali di Scola – testimoni di una società in transizione tra terrorismo e un nuovo decennio alle porte – hanno una chiesa di riferimento, un «partito, inteso come corpo mistico, che possedeva una sua sacralità»: il comunismo italiano. Un accostamento che può apparire al limite dell’ossimoro, eppure la fede nell’avvento di una società giusta, al netto di disuguaglianze e privilegi, ha in sé infiniti punti di tangenza con l’adesione alla religione. Come scrive Filippo Ceccarelli in Invano, «il segretario generale era equiparato a un pontefice. Al suo fianco, come in un affresco medievale, sotto l’invisibile baldacchino volta per volta si notavano cardinali, vescovi, predicatori, missionari e parroci. Come secondo il modello di Santa Romana Chiesa, avevano un loro peso congregazioni e ordini religiosi, ciascuno con le sue regole e le sue caratteristiche, anche disciplinari». Una Chiesa rossa che ha guidato, anche se mai al governo, l’Italia attraverso le trasformazioni del ventesimo secolo con un nuovo testamento di eguaglianza, dalla macroeconomia ai diritti nelle camere da letto; un partito che per la sua serietà e intransigenza meritava il rispetto, ma incuteva anche timore riverenziale. È proprio questa danza di circuizione e devota benevolenza che Ettore Scola allestisce, con partitura da satira, intorno all’onorevole del Partito Comunista ne La terrazza, interpretato da Vittorio Gassman: per tutta la cena, tra gli intellettuali c’è chi imbocca il politico per fargli assaggiare il piatto migliore e chi lo invita con insistenza alla prossima presentazione del proprio libro, Gassman rappresenta un’entità che anche nelle discussioni più accese non va messa in discussione, solo compresa e assecondata. Soltanto gli amici più stretti, come il giornalista interpretato da Marcello Mastroianni, in assenza di pubblico, possono canzonarlo con un bonario «ma come te vesti?» In un’unica scena Scola mette da parte la provocazione sarcastica: offeso per un’accusa di stalinismo, rivolta da un critico (Stefano Satta Flores), lo sceneggiatore (Jean-Louis Trintignant) si scaglia contro il deputato comunista: «E anche tu che disprezzi profondamente i falsi impegni rivoluzionari di artisti e critici in malafede, ma non lo dici e non lo scrivi, tu sei peggio di lui! Non mi toccare! – pausa lunghissima, Trintignant si ricompone, cambia completamente tono e si scioglie in un abbraccio con Gassman – Ma lo sai che ti voglio bene». Una battuta che compendia e fotografa le due dinamiche tra il partito e gli intellettuali, perché per quanto c’è sempre un fedele della Chiesa rossa che sceglie di ritrovare l’abbraccio ecumenico del Colonnato di Bernini in una conforme linea di pensiero con la forza politica, ce ne sarà sempre un altro disposto a sottolinearne criticità, mancanze e ritardi, sbagliate interpretazioni ed azioni, un fedele disposto ad ascoltare il cherem per libero pensiero come Baruch Spinoza, una scomunica da Martin Lutero o andare al rogo da eretico come Giordano Bruno. Due linee di condotta che rispecchiano la ripartizione dualistica offerta da Leonardo Sciascia sulla figura dell’intellettuale: l’organico che sceglie di conformarsi e il disorganico che, in nome dell’indipendenza, preferisce fare e dire quello che vuole, schierandosi inevitabilmente contro il potere in tutte le sue forme.

Ignazio Silone - Foto Archivio Collezione Garzia
Ignazio Silone – Foto Archivio Collezione Garzia

La linea intellettuale dissidente del Comunismo italiano corre per tutto il secolo seguendo parallelamente la storia del partito. Come Ludwig Feuerbach focalizza nell’immagine di Dio il risultato di una proiezione dell’uomo, con tutte le caratteristiche ideali che vorrebbe possedere, il Comunismo individua nell’immagine dell’intellettuale non allineato tutti i pericoli che il partito dovrà sfidare per la sua sopravvivenza. Il nemico è chi contesta l’autorità dell’URSS ed è un’icona che cambia e muta nei decenni, riflettendo ogni volta una minaccia differente. Per Ignazio Silone è l’allontanamento dal pensiero stalinista a siglare la rottura: pur essendo tra i fondatori del partito nato nel 1921, lo scrittore abruzzese condanna una decisione del Komintern di Mosca per espellere Trotsky e Zinov’ev. Un’opposizione che non lascia altra soluzione che la sua uscita definitiva nel 1930. Dopo la fine della seconda guerra mondiale un destino simile toccherà a Elio Vittorini: membro attivo della Resistenza, direttore per alcuni mesi de l’Unità e fondatore della rivista culturale Il Politecnico, Vittorini, seguendo la riflessione di Jean-Paul Sartre sul fallimento dell’antifascismo per non aver previsto e prevenuto la catastrofe del conflitto, nel 1945 in un editoriale scrive: «E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli?». Sembra interrogarsi: se il comunismo insieme ai liberali non ha potuto impedire Mauthausen, Majdanek, Buchenwald e Dachau, non è da considerare corresponsabile? Non è giunto il momento per il partito e le altre forze democratiche di fare autocritica? Sarà proprio l’impossibilità ad accogliere le istanze per una riflessione, voluta dalla dirigenza di Palmiro Togliatti, sempre in ottemperanza all’autorità indiscussa di Stalin, e la mancanza di un’apertura liberale a decretare prima l’allontanamento e, dopo, la definitiva uscita dal partito di Vittorini. Come scriverà in un articolo per La Stampa, Le vie degli ex comunisti (1951), chiarendo le motivazioni del suo distacco: «Il dottrinarismo comunista nega che vi sia, sommato tutto, un movimento storico generale a indirizzo liberatore. Non riconosce che movimenti storici particolari a indirizzo di classe. E così, credendo in fondo solo nelle tirannie, avendo in disprezzo ogni spontaneità dell’uomo, spinge la rivoluzione comunista a inserirsi nell’altro movimento storico generale, che procede intrecciato col primo ma rivolto all’indietro, come suo rovescio e suo contrario.» Non si fa attendere la risposta di Palmiro Togliatti: sotto lo pseudonimo Roderigo di Castiglia, il segretario generale risponde allo scrittore siciliano sulla rivista Rinascita, alternando nell’intervento un’irrisione da Pasquino – «A dire il vero, nelle nostre file pochi se ne sono accorti. Pochi si erano accorti, egualmente, che nelle nostre file egli ci fosse ancora» – e la chiara fermezza da leader «Contadini e operai non è che vogliano «un liberalismo senza capitalismo», come dice Vittorini solo riducendosi come sempre ad un giuoco di parole, ma non vogliono più il capitalismo e quindi combattono per la libertà».

Italo Calvino - Foto Archivio Collezione Garzia
Italo Calvino – Foto Archivio Collezione Garzia

Se il cattolicesimo riconosce nella nascita del culto ortodosso lo scisma d’oriente, nel ’56 la Chiesa rossa, con la repressione sovietica della rivoluzione ungherese e la denuncia di Nikita Chruščëv dei crimini di Stalin, assiste ad una lacerazione e crisi al suo interno: saranno Italo Calvino, il deputato Antonio Giolitti e la giornalista de L’Ora di Palermo, Giuliana Saladino – a riprova che in ogni dove il PCI aveva gente libera, da Torino in seno all’Einaudi a Palermo in lotta contro Dc, mafia e speculazione – ad abbandonare definitivamente il partito. Una soppressione armata e un uso indiscriminato della violenza che non possono essere tollerati, soprattutto dalla forza politica che aveva siglato come principio fondamentale nella Carta Costituzionale «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». E se nella Chiesa rossa iniziano ad esserci alcuni banchi vuoti, anche chi resta a sentire e servire messa inizia ad intonare un coro in dissonanza: con il Manifesto dei 101, gli intellettuali chiedono al partito italiano di avviare una discussione su quanto accade in Ungheria e una ferma condanna dello stalinismo. Tra i suoi firmatari ci sono Carlo Muscetta, Natalino Sapegno, Alberto Asor Rosa ed Enzo Siciliano. È nello stesso anno che Pier Paolo Pasolini scriverà Una polemica in versi (apparso per la prima volta nel novembre del 1956 su Officina e poi incluso nella raccolta Le ceneri di Gramsci, 1957), un poema sullo sfondo di una triste festa de L’Unità che senza riserve rivolge un duro attacco al PCI per il suo crescente burocratismo, mancanza di passione e un distacco sempre più grande tra il calcolo delle segreterie di partito e la vita del suo popolo: «Hai voluto che la tua vita fosse / una lotta. Ed eccola ora sui binari / morti, ecco cascare le rosse / bandiere, senza vento». Un avvertimento che riporta al monito di Vladimir Vladimirovič Majakovskij: «Non rinchiuderti, Partito, nelle tue stanze/ resta amico dei ragazzi di strada». Anche se già espulso dal PCI nel 1949, per una denuncia di corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico (accusa da cui verrà assolto nel dicembre del 1950), Pasolini non rinuncia alla dissidenza: la radiazione gli permette di osservare e criticare il comunismo italiano – continuando ad esserne un elettore – da una posizione laterale, affrancato dalle pressioni della federazione ma preservando una fedeltà ideale, perché «Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico di questa parola». Un intellettuale che mette doppiamente a disagio il partito, sgradito non solo per l’omosessualità e «le scabrose situazioni in cui egli si è venuto a trovare fino a provocare l’intervento del magistrato», ma anche per le accuse di «atteggiamenti borghesi, perbenismo e moralismo» che il poeta riserva ai dirigenti come nell’intervista di Enzo Biagi. Una critica che trova sempre più spazio nei versi, quasi a collocare il suo comunismo ideale tra i ruderi, le chiese, le pale d’altare e i borghi, come «una forza del passato». La vicinanza di Pasolini, specialmente nelle crisi ed emergenze del partito, è il «nonostante tutto»: non tramonterà mai completamente la speranza per lo scrittore di assistere a uno nuovo cambio, un ritorno alle origini perché è una religione la bandiera rossa, che deve ricominciare a esistere per gli ultimi: «tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie, ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli».

Pier Paolo Pasolini - Foto Archivio Collezione Garzia
Pier Paolo Pasolini – Foto Archivio Collezione Garzia

Se Pasolini denuncia la lontananza dal popolo, il gruppo de Il Manifesto contesta nelle sue pubblicazioni la vicinanza ai paesi del Patto di Varsavia e la distanza dalle manifestazioni studentesche. Sarà soprattutto Rossana Rossanda, esponente dell’area movimentista, corrente che gravita intorno a Pietro Ingrao, a curare il dialogo tra il mondo variegato dei più giovani e il partito. Un moto centrifugo dalla tradizione da risultare inappropriato: nel momento in cui Il Manifesto si ritrova ad attaccare l’ala maggioritaria, divergendo sulle posizioni del Comitato centrale in tema di occupazione della Cecoslovacchia, rivoluzione culturale e rinnovamento del PCI, ecco che l’insubordinazione viene punita con l’espulsione per reato di frazionismo, un tribunale dell’Inquisizione che prende le sembianze del XII Congresso nazionale del Partito a Bologna nel 1969 e condanna Valentino Parlato, Luigi Pintor e Rossana Rossanda. Uguale radiazione toccherà l’anno seguente a Luciana Castellina a seguito dei suoi articoli sulla Primavera di Praga.

Elio Vittorini - Foto Archivio Collezione Garzia
Elio Vittorini – Foto Archivio Collezione Garzia

Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, all’apparenza, l’unità del PCI sembra corrispondere ancora alla coralità de I funerali di Togliatti dipinta da Renato Guttuso: ci sono state le dimissioni di Gian Maria Volonté da consigliere regionale del Lazio (1975), per un suo insanabile «baratro tra bisogno di comunismo e la carriera politica», ma gli intellettuali organici, storici sostenitori e volti della cultura in Italia guidano come stelle fisse la transizione nel nuovo decennio, come Alberto Moravia europarlamentare da indipendente nelle liste del PCI dal 1984 e Natalia Ginzburg eletta come deputato nel 1983. C’è una flessione di percentuale dopo l’acme delle politiche del 1976, eppure la guida del “Dolce” – secondo Venditti – Enrico Berlinguer, dedita in campo internazionale al disarmo nucleare e sul fronte interno allo strappo con l’URSS, rassicura gli elettori del partito. È il cinema italiano a smarcarsi da questa rappresentazione di calma illusoria: se Ettore Scola conclude la sua cena ne La terrazza facendo cantare in coro Que rèste-t-il de nos amours? di Charles Trenet, anticipando la crisi, la nostalgia e una corsa ai ripari da un temporale improvviso, sarà Nanni Moretti in Palombella rossa (1989) a filmare il tramonto definitivo del partito, tra perdita di memoria, identità e visione futura: «Noi sappiamo dove andare, sappiamo cosa fare, noi abbiamo tante idee» ripete Moretti in veste del funzionario del PCI, poco prima di sbandare e uscire fuori strada con l’auto. Il rigore dei comunisti, quel tratto che li ha resi uguali ma sempre diversi, è caduto in nome della felicità e visibilità personale, soprattutto dei suoi dirigenti; l’intransigenza del partito che ispirava timore adesso è il soggetto per sketch comici nelle trasmissioni televisive e la speranza in un tempo prossimo e migliore, come in tutte le religioni, da sole dell’avvenire si è rivelato un sole di carta, un trucco che fa ridere, ma solo i bambini. «Il domani sarebbe stato migliore dell’oggi – spiega Miriam Mafai – le cose sarebbero inevitabilmente cambiate. Il lavoro di tanti serviva ad accelerare questo processo. L’appuntamento con la Storia era stato fissato, anche se nessuno poteva conoscerne l’ora precisa». Sarà per questo che ancora oggi qualche fedele, in solitudine e superstite, aspetta fiducioso guardando l’orologio.