L’altra possibilità di Napoleone

Mentre il vascello inglese Northumberland lo porta a Sant’Elena, dove sbarcò il 17 ottobre del 1815, dopo due mesi di viaggio, è probabile che non ricordasse l’appunto preso da ragazzo guardando l’oceano Atlantico e finendo a scrivere un nome e un commento: «Sant’Elena, piccola isola». Jorge Luis Borges avrebbe detto che se non avesse scritto il nome dell’isola, un piccolo punto – divenuto quello finale – in una traiettoria che dallo sguardo si fa di vita, avremmo avuto un altro Napoleone, e lui un’altra vita. Quell’appunto che era una premonizione oscura, una di quelle intuizioni che l’istinto si concede in anticipo sui tempi, senza motivo, era l’ultima tappa del viaggio avventuroso di un uomo che cambiò il mondo. Se non avesse notato quel nome di donna – una donna che Omero usa come pretesto per una guerra, un personaggio tragico – scritto in mezzo al blu dell’oceano, ma un altro nome, e avesse appuntato quello: è probabile che avremmo avuto un Napoleone scrittore, come desiderava, prima di essere risucchiato nella vita dell’imperatore.

Poteva occuparsi dell’altra vita di Napoleone, quella scongiurata dall’avvistamento di un’isola di carta, come se stesse facendo un viaggio salgariano – tutto d’immaginazione – solo uno scrittore che, invece, sarebbe stato un meraviglioso imperatore romano, intriso di classicismo, architetto della pagina, capace di opere meravigliose che somigliano a quelle di un altro architetto, ma del neoclassicismo, Étienne-Louis Boullée che immaginò una biblioteca immensa, labirintica, oltre il Cenotafio di Newton, e quello scrittore è Alberto Savinio – uno dei veri grandi irraggiungibili, per questo dimenticatissimo, troppo complicato in un tempo di semplificazioni e serialità –. Uno che si fece una sua Enciclopedia: «Sono così scontento delle enciclopedie, che mi sono fatto questa enciclopedia mia propria e per mio uso personale. Arturo Schopenhauer era così scontento delle storie della filosofia, che si fece una storia della filosofia sua propria e per suo uso personale».

In questa Enciclopedia, tra le infinite cose, scrisse: «Napoleone diventò quello che tutti sanno, ma non riuscì a diventare quello che nel suo intimo desiderava: un letterato. Comincia a quindici anni, per non dire dei tentativi precedenti, con una specie di memoriale giovanile (curiosa l’analogia col « memoriale» della fine) intitolato Tappe della mia vita. Più tardi scrive una Storia della Corsica in forma epistolare. Scrive la Lettera a Buttafuoco. Scrive un piccolo romanzo: Clisson et Eugénie. Scrive un dialogo: Le Souper de Beaucaire. E quando non scrive si propone di scrivere, come nel proclama ai soldati dopo Waterloo: «Se ho consentito a sopravvivere, è per servire ancora la vostra gloria. Scriverò le grandi cose che abbiamo compiute assieme». E quando non scrive egli stesso, fa scrivere ad altri, come a Sant’Elena. In una confessione sincera dei suoi desideri riposti, Napoleone avrebbe scambiato Arcole, Wagram, Austerlitz per un’opera letteraria che sfidasse i secoli, pari a quelle dei grandi autori che egli tanto amava, e rileggeva di continuo, e nella sorte persa e in quella avversa, e meditava, e postillava. Acque bastanti il Rodano non ha, per lavare il letterato delle sue colpe: delle sue invidiate colpe».

E un altro atto napoleonico firmato come tiranno, ma sottilmente immaginato da scrittore ce lo racconta Chateaubriand: quando prese il potere, Napoleone, fece falsificare l’anno del suo atto di nascita dal 1768 al 1769, non per ringiovanirsi, ma per far credere che era nato francese (nel 1768 la Corsica faceva ancora parte della Repubblica di Genova). E prima si era cambiato il cognome da Buonaparte a Bonaparte. Sapeva che nel salto di una sillaba c’è il mondo e che la scrittura è la possibilità di darsi una biografia altra, di giocare col tempo, quindi il suo è un atto di scrittura pensato da scrittore e concretizzato da tiranno. Anche perché lo scrittore è tiranno, altrimenti è un trascrittore, un diarista, un servo. Ma c’è una differenza dei fini nelle due tirannie. E per spiegarlo bisogna tornare a Savinio che fa un paragone tra lo scrivere mussoliniano e quello napoleonico:

«Mussolini scriveva. In certi periodi della sua vita, lo scrivere fu la sua principale attività. Anche in questo Mussolini era napoleonico. Il sogno di Napoleone era di diventare scrittore. Egli avrebbe dato l’impero, l’Europa, le sue vittorie militari per un successo letterario. Questi grandi uomini di azione, le loro azioni sono dei ripieghi, delle sostituzioni di altre cose che costoro vorrebbero fare e non possono. È per questo che le azioni di questi uomini di azione portano in sé un rammarico, un rimorso, una delusione. È per questo che le azioni di questi grandi uomini d’azione non sono mai né pure né schiette. È per questo che le azioni di questi grandi uomini di azione hanno in sé un germe che le rode e le fa marcire. È per questo che le azioni di questi grandi uomini di azione sono immorali. Scrivere non significa essere scrittore. Mussolini scriveva, ma non era scrittore. Il dittatore scrive per durare. Il dittatore scrive perché sa che la dittatura è transitoria, e vuol lasciare dietro a sé qualcosa di duraturo. Come poteva sperare Mussolini di durare nei propri figli? Dura nei propri figli l’uomo comune: l’uomo che non ha altra possibilità, altra speranza, altro modo di durare. Riconosciamo questo – almeno questo – a Mussolini. Se avesse dovuto durare solo nei propri figli, sarebbe stato un ben triste durare il suo. Sarebbe stato un morire due volte, un morire tutto intero. Non omnis moriar dice Orazio. E Corneille nel Cinna: «Sont-ils morts tous entiers avec ley,rs grands desseins?». E Racine per parte sua nell’Ifigenia: «Et toujours de la gioire évitant le sentier / Ne laisser aucun nom, et mourir tout entier». Pur nella sua immane ignoranza, Mussolini conosceva tanto di latino da conoscere che scripta manent. E scriveva. La sua segreta ambizione era di essere uno scrittore. Ma non era scrittore. Anche lo scrivere era un tentativo per lui di riempire il proprio vuoto. Questo rivela la sua scrittura frettolosa: la sua scrittura ansiosa di riempire la pagina. La scrittura di Mussolini ha orrore del vuoto; ha paura della pagina bianca».

Napoleone poteva essere migliore almeno stando ai giudizi di Stendhal e Chateaubriand, perché la sua lingua era sporca, un incrocio di mari e venti e terre, un’isola, appunto, linguistica tra l’Italia e la Francia. Stendhal dice: «Lo stile è greve, il giro della frase qualche volta scorretto; vi si trovano degli italianismi; ma ciò non ci impedisce di intravedere nell’autore un carattere singolare». E poi, che: «La sua educazione non era né sapiente né accurata; per metà straniero, ignorava le regole fondamentali della nostra lingua. Ma che importa, dopotutto, che il suo eloquio fosse scorretto? Egli dava la parola d’ordine all’universo. I suoi bollettini hanno l’eloquenza della vittoria». È curioso che durante il fascismo gli italiani chiamassero i bollettini di Mussolini: ballettini, non per il ballo ma per le balle, quindi Mussolini non era scrittore nemmeno nei bollettini, mentre Napoleone poteva esserlo due volte.

(Sempre Savinio immagina, divertendosi, nella sua Enciclopedia, una storia dell’Europa differente se fosse arrivata una lettera da un editore, come per i mercati d’arte nei confronti dei quadri di Hitler – una possibilità immaginata anche da Kurt Vonnegut ne Il grande tiratore, quando Otto Waltz compra per pochi soldi il dipinto del futuro dittatore La chiesa dei frati minori a Vienna –: «Sarebbe bastato che dalla casa Gallimard fosse partita all’indirizzo di palazzo Venezia una lettera fregiata della sigla N.R.F., nella quale s’invitava Benito Mussolini a dare un suo manoscritto. Non libro politico più; non Scritti e Discorsi: un libro letterario; magari una semplice plaquette de vers. La terribile storia dell’Europa di questi anni avrebbe avuto un indirizzo ben diverso»).

Su Napoleone scrittore, la parola definitiva la dice uno dei grandi critici letterati del passato: Sainte-Beuve, scrivendo:

«Mentre Napoleone era in vita, l’azione oscurava tutto; ma non c’era dubbio vi sarebbero state, più tardi, ragioni per ammirare la sua parola. Oggi che l’azione è più lontana e che la parola resta, ecco che questa ci appare nella sua qualità peculiare al tempo stesso che la memoria dell’azione vi proietta un riflesso, quasi un raggio. Quando scrive, Napoleone è la semplicità stessa. È un piacere vedere che colui che è stato oggetto di tante frasi, ne abbia scritte di così scarne».

Scarno è un aggettivo lontano da Napoleone. Glabro sì, basso pure, ma scarno no. Eppure a rileggere Clisson et Eugénie, è così. Quindi era un uomo barocco con una anima da scrittore minimalista. Un uomo coraggioso che davanti alla pagina diventava uno scrittore prudente, attento, anche per via delle difficoltà in una lingua non del tutto sua. Un uomo che parte da un’isola e approda a un’isola, restando isolato. Solo. Dispari. Che diventa imperatore del popolo francese, amato, il primo dopo la Rivoluzione, ed è il prototipo di tanti altri che nati senza aristocrazia ebbero un regno. Lui si diede un impero. Napoleone non poteva dirsi come Cesare nipote di Venere, diceva: «Notre prédécesseur Charlemagne». Doveva inventarsi un prima, da scrittore. Una evocazione, un rimando con altre gesta e altre storie. 

Come il tempo successivo al suo si inventò delle dormite nei letti di tutti i palazzi e di tutte le ville di qualche importanza sparsi per l’Europa, tanto da indurre Alan Taylor nel suo film, I vestiti nuovi dell’imperatore, a farlo trovare, per una serie di circostanze in una locanda di Waterloo al cospetto di una targa: “Napoleone ha dormito qui”, chiaramente fasulla, e a farlo addormentare sotto quella targa, nel letto che poi davvero diviene quello usato da Napoleone. Il tempo dedicato al sogno, avvera i desideri evocati dalla realtà. Questa è la sua parabola letteraria: un continuo smentire le leggende, per poi avverarle nell’immaginazione letteraria, cinematografica, teatrale. Quasi che la possibilità d’esser scrittore, negata al generale, divenisse la possibilità di inventare storie su di lui da parte degli altri. Un generatore di scrittura come pochi. 

Vittorio Criscuolo nel suo Ei fu. La morte di Napoleone (Il Mulino) racconta di un libro distopico, quello scritto da Louis Geoffroy (1803-1858), un magistrato, (Napoleone e la conquista del mondo 1812-1832. Storia della monarchia universale), riedito poi nel 1841 con il titolo di Napoléon apocryphe (trad. it. Napoleone apocrifo, 1991), una sorta di ucronia, come farà poi Philip Roth con The Plot Against America «nel quale immaginò che Napoleone avesse sconfitto la Russia nel 1812 e quindi, invasa l’Inghilterra, avesse imposto al mondo il proprio dominio. L’Impero universale da lui stabilito, oltre a garantire l’ordine, la pace e la felicità, promuove uno straordinario progresso scientifico e tecnologico, grazie all’utilizzo delle due risorse dalle quali era possibile attendersi all’epoca radicali novità, l’elettricità e soprattutto il vapore, in grado di creare, nelle sue diverse applicazioni, forze centuplicate rispetto a quelle conosciute. Ne deriva uno scenario fantascientifico: vetture che volano con la velocità della folgore su strade ferrate fra le due estremità dell’Impero, enormi vascelli che hanno fino a 20 ruote azionate da numerose macchine a vapore in grado di attraversare l’oceano in meno di una settimana, grandi palloni aerostatici simili a dirigibili che si muovono grazie all’unione delle forze magnetiche con l’elettricità, nuove macchine che possono scacciare le nuvole e dissipare le tempeste, procedimenti basati su scariche elettriche e altre forze fisiche per trarre acqua potabile dal mare. Nel 1826 Napoleone, dopo le sue ultime vittorie, tornava dall’Oriente in Europa quando all’improvviso i marinai della nave imperiale videro profilarsi all’orizzonte Sant’Elena»:

« […] l’imperatore impallidì, un freddo sudore gli imperlò improvvisamente la fronte; sembrava che un pericolo ignoto, un fantasma spaventoso gli avessero gelato il sangue. «Sant’Elena» disse con voce cupa; e lasciò cadere la testa sul petto, come oppresso da un dolore lancinante. I re e i generali lo guardarono stupefatti, non riuscendo a comprendere quello spavento. Il mare era calmo, la navigazione rapida e felice […]. L’ammiraglio Duperré venne a prendere gli ordini dell’imperatore, chiedendogli quando si sarebbe dovuto sbarcare. «Mai!» rispose, o meglio gridò Napoleone. Tutti erano pietrificati dallo stupore e quasi dal terrore. «La nave si allontani al più presto dall’isola senza attraccare».

«Mentre la nave, volgendo verso Occidente, si allontanava rapidamente, come indignata, Napoleone, salito sul ponte, si fermò a lungo a contemplare l’isola con il cannocchiale con una cupa espressione sul volto. Un anno dopo egli inviò a Sant’Elena una squadra navale che raccolse tutti gli abitanti con i loro beni. Quindi in tutti i lati dell’isola «furono posti nelle viscere della terra dei vulcani artificiali formati con tutta la forza di gas compressi che le recenti scoperte della fisica consentivano». Dopo una terribile esplosione, dell’isola non rimasero che pochi frammenti calcinati, spazzati via definitivamente dalla forza delle onde il 5 maggio 1827».

Questo nella versione di Louis Geoffroy, riassunta da Criscuolo, ma nella nostra immaginifica versione, Napoleone, ignorando l’isola, sarebbe diventato uno scrittore, e forse poi in un viaggio in nave, come un Simenon, avrebbe sì, visto l’isola da un cannocchiale, ma senza sbarcarci, perché sarebbe stata un’isola deserta, priva di vita, perché ignorata dal ragazzino Napoleone, isolato, non più come condottiero e tiranno, ma come scrittore.

Sant’Elena sarebbe diventata L’isola sconosciuta raccontata da José Saramago, un luogo mobile che appare e scompare sulle carte della fantasia, come nella fantasia degli umani appaiono e scompaio gli Elvis, mai morti, mai veramente scomparsi:

«Il filosofo del re, quando non aveva niente da fare, veniva a sedersi accanto a me, mi guardava rammendare le calze dei paggi, e a volte si metteva a ragionare, diceva che ogni uomo è un’isola, […] Che bisogna allontanarsi dall’isola per vedere l’isola, e che non ci vediamo se non ci allontaniamo da noi, Se non ci allontaniamo da noi stessi, intendete dire, Non è la medesima cosa».

Invece, sull’isola vera, quella che contiene la storia autentica, l’8 luglio 1836, con la nave Beagle, arriva Charles Darwin che trova alloggio «a un tiro di pietra dalla tomba di Napoleone» e dopo aver esplorato il territorio isolano, tra le tante annotazioni scrive:

«Un giorno notai un fatto strano: mentre ero ai margini del piano, che termina con un grande dirupo profondo circa trecento metri, vidi alla distanza di pochi metri alcune sterne che lottavano contro un vento fortissimo, mentre dove mi trovavo io l’aria era completamente calma. Avvicinandomi di più al margine, dove sembrava che la corrente fosse deviata verso l’alto dalla parete di roccia, sporsi un braccio e immediatamente sentii tutta la forza del vento; una barriera invisibile, larga due metri, separava l’aria perfettamente calma da un vento violento».

E quella barriera non separava solo i due venti, ma anche le due possibilità di Napoleone, giocate su «Sant’Elena, piccola isola».