Dante in Duomo, a Milano

Fino al 9 luglio 2021, dal lunedì al venerdì, alle ore 18.30, in Cattedrale, nei pressi dell’Altare maggiore, si tiene lettura integrale della Divina Commedia. Sotto la direzione artistica di Massimiliano Finazzer Flory, con la partecipazione di musicisti dell’Orchestra del Teatro alla Scala e degli allievi del Piccolo Teatro di Milano, ogni giorno è in scena la lettura di due canti dall’immortale opera dantesca. L’apertura di ogni cantica è affidata a un relatore d’eccezione: dopo Massimo Cacciari (che ha introdotto la lettura dell’Inferno), ieri sera, 26 maggio 2021, Mons. Marco Ballarini, Canonico del Duomo e Prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, ha tenuto  una lectio magistralis sul Purgatorio. L’introduzione al Paradiso sarà affidata il prossimo 17 giugno a Elio Franzini, Rettore dell’Università degli Studi di Milano. A volere questo progetto l’Arciprete del Duomo di Milano Mons. Gianantonio Borgonovo e il Capitolo Metropolitano, con la collaborazione della Veneranda Fabbrica del Duomo e della Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Riportiamo qui di seguito il testo letto da Monsignor Marco Ballarini

Introduzione al Purgatorio

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte

che nel pensier rinova la paura!

Tant’è amara che poco è più morte (Inf I 4-7).

Dolce color d’orïental zaffiro,

che s’accoglieva nel sereno aspetto

del mezzo, puro infino al primo giro,

a li occhi miei ricominciò diletto,

tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta

che m’avea contristati li occhi e ’l petto.

Lo bel pianeto che d’amar conforta

faceva tutto rider l’orïente,

velando i Pesci ch’erano in sua scorta (Pg I 13-21).

«Dolce color d’orïental zaffiro»: il verso più bello non solo della Commedia, ma di tutte le letterature romanze secondo Borges, un verso che da solo potrebbe bastare a presentarci l’immagine sintetica del Purgatorio dantesco. Dolce è il colore del cielo in questo inizio incantato, e dolce l’aura senza mutamento della divina foresta spessa e viva che accoglierà il pellegrino al termine del viaggio di purificazione; e lungo il cammino tanti altri momenti di dolcezza come quello dell’addio ai dolci amici e dell’ascolto delle dolci note di Amor che ne la mente mi ragiona e di tante altri canti e preghiere come il Te lucis ante, fino all’Asperges me della definitiva purificazione che «sì dolcemente udissi».

La dolcezza della musica e del paesaggio contagia l’atteggiamento delle anime: nessuna pretesa, nessuna presunzione, nessuno accampa precedenze o diritti; e dolce mansuetudine suggeriscono le immagini: «come le pecorelle escon dal chiuso, timidette atterrando l’occhio e il muso, semplici e quete»; «come i colombi, quieti, sanza mostrar l’usato orgoglio», «come le capre si stanno ruminando manse»… Da dove questa dolcezza? La segreta sorgente è svelata dalla preghiera della sera dei principi in quella valle che è insieme richiamo all’Eden e esclusione da esso. Esuli tutti, i figli di Eva; e con l’esule Dante pregano la Regina del cielo che è «vita, dolcezza e speranza nostra», e chiudono la loro supplica con la triplice invocazione «o clemente, o pia, o dolce Vergine Maria»: la dolcezza materna di Maria si spande per l’intera cantica, ma a Lei dovremo necessariamente tornare.

Fermiamo la nostra attenzione, per ora, sull’orïental zaffiro, pietra preziosa dotata di particolari poteri, anzi, meglio, di particolari “virtù” come attestavano i diffusi lapidari medievali, ben noti anche a Dante, che nello zaffiro vedevano la pietra della libertà e della purificazione, come attesta Marbodo nel suo Liber lapidum: proprio dello zaffiro è educere carcere vinctos, placatum Deum reddere, tollere ex oculis sordes.

Emblema, dunque, innanzitutto di libertà e di liberazione. E cammino di libertà e di liberazione è quello dei pellegrini che giungono alla santa montagna, come attestato fin dal primo incontro in quella affermazione scolpita nella nostra memoria e nel nostro desiderio, che è insieme dichiarazione dello scopo del viaggio e promessa di eterna beatitudine:

Libertà va cercando, ch’è sì cara,

come sa chi per lei vita rifiuta.

Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara

in Utica la morte, ove lasciasti

la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara (Pg I 71-75).

La dichiarazione è seguita immediatamente, nel canto successivo, dalla preghiera dei nuovi arrivati: In exitu Israel de Aegypto, liberati dalla schiavitù dell’Egitto, dal regno del male e della morte, iniziano il faticoso e gioioso cammino che li conduce alla terra promessa; e alla metà esatta del viaggio narrato dall’intera Commedia la riaffermazione del libero arbitrio al di là di ogni determinismo terrestre o celeste, finché la paterna guida, Virgilio, dichiarerà finalmente compiuto il cammino, terminato il suo compito, raggiunta quella libertà che Dante andava cercando:

Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, diritto e sano è tuo arbitrio,

e fallo fora non fare a suo senno:

per ch’io te sovra te corono e mitrio. (Pg XXVII 139-142)

La seconda virtù dello zaffiro posto come emblema della Cantica, è fonte di ulteriore stupore: placatum Deum reddere, placare Dio, renderlo propizio, rivelarci il volto della misericordia. Qui è l’abissale differenza rispetto alle anime per sempre dannate; peccatori anche i penitenti del Purgatorio, capaci di orribili delitti, anche più gravi di tanti peccati puniti nell’abisso del male; ma hanno scoperto, magari nell’ultimo istante della loro esistenza, il volto della misericordia:

Orribil furon li peccati miei;

ma la bontà infinita ha sì gran braccia,

che prende ciò che si rivolge a lei (Pg III 121-123).

E non facciamo fatica alcuna a vedere dietro queste sì gran braccia quelle del padre della parabola, spalancate ad accogliere il figlio che torna dopo aver dissipato ogni bene e, soprattutto, se stesso. Basta una lagrimetta, ironizza l’Avversario; ma con la lagrimetta il nome di Maria – ancora lei – e soprattutto, per Bonconte come per tutti gli altri «morti per forza e peccatori infino a l’ultim’ora», quel gesto che veramente dice che ci si è gettati tra le braccia del Misericordioso: «pentendo e perdonando, fora / di vita uscimmo a Dio pacificati» (Pg V 55-56). Pentendo e perdonando, espressione insieme – inscindibili – del vero desiderio di pace.

Il pastor di Cosenza non ha ben letta in Dio questa faccia; a lui e a ogni altro rappresentante della Chiesa l’angelo ostiario, prima dell’ingresso nel Purgatorio vero e proprio, ricorda il monito di Pietro: «Da Pier le tegno ; e dissemi ch’i’ erri  anzi ad aprir ch’a tenerla serrata / pur che la gente a’ piedi mi s’atterri» (Pg IX 127-129). Da Pietro ho ricevuto le chiavi dell’ingresso nella via della salvezza e mi ha raccomandato di sbagliare piuttosto nell’aprire che nel chiudere, purché ci sia un umile segno di pentimento; e Dante non ha esitato un istante: «Divoto mi gittai a’ santi piedi;  misericordia chiesi e ch’el m’aprisse, / ma tre volte nel petto pria mi diedi» (Pg IX 109-111). E infiniti sarebbero gli esempi; ogni anima racconta in realtà una storia che è storia di bontà infinita, narra vicende di ostinata stoltezza vinta da una ancor più ostinata misericordia.

Ma noi dobbiamo tornare allo zaffiro per godere dell’ultima sua virtù: tollere ex oculis sordes, togliere le macchie dagli occhi ridonando intera la capacità di gustare della luce, che è quella del cielo, dell’alba che sta per nascere, ma anche quella della divina Presenza, come spiegherà in-fine Matelda. Intanto dal volto dovrà scomparire ogni sucidume, ogni traccia d’inferno, ogni macchia che impedisce di godere di questo duplice incanto. La liturgia di purificazione cui avvia Catone sarà condotta a compimento con l’immersione nelle acque dei due fiumi dall’unica sorgente, il Lete e l’Eunoè, che non dovranno più cancellare macchie o sucidume, ma rendere totalmente nuova e franca la memoria del pellegrino, reso così «puro e disposto a salire a le stelle».

Intanto la luce assume altre sfumature, premonitrici dell’alba. Sorge la stella di Venere da un lato simbolo dell’amore che rende possibile il viaggio, e che si lega dall’altro a un “paesaggio liturgico” , trattandosi di quella stella Lucifero che ritorna – come ben sanno i signori canonici presenti – in tanti inni che cantano la vittoria della luce sulla notte: Hoc excitatus Lucifer solvit polum caligine (Lucifero, la stella del mattino, libera il mondo dalle tenebre). L’atmosfera è quella di un’attesa nella grazia, di una trepida fiducia nel sole della salvezza che sta per sorgere.

«Lo bel pianeto che d’amar conforta / faceva tutto rider l’orïente»: e l’amore sta a fondamento della struttura stessa della sacra montagna. Non più il maestro di color che sanno, Aristotile,  con la sua Etica a distinguere peccati e peccatori, solo l’amore qui è l’unica misura, perché «Né Creator né creatura mai fu sanza amor»; certo può essere sbagliato l’oggetto del desiderio, può essere insufficiente o eccessivo l’attaccamento, e di questo qui ci si purifica. Ma solo l’amore poteva essere il criterio di un cammino che conduce Dante a Beatrice, l’amore di una vita e strumento, per grazia, dell’incontro con l’Amore eterno.

Che cosa sia veramente l’amore cristiano ci è detto all’inizio e al termine di ogni cornice. La proclamazione delle beatitudini e degli esempi ad esse corrispondenti costituisce il vero filo conduttore del viaggio purgatoriale; le beatitudini creano l’atmosfera della Cantica, condizionano i gesti e le parole dei penitenti. La pagina che ha annunciato la presenza del Regno regge anche questo secondo regno che è quello della risurrezione, della rinascita dell’uomo nuovo. La giustizia, la virtù come merito personale è completamente superata in questa cantica della misericordiosa gratuità. Un testo può essere stato punto di riferimento per Dante, un testo largamente diffuso anche nella predicazione e nella catechesi: I cinque settenari (De quinque septenis) di Ugo di San Vittore, dove i primi tre sono appunto quelli dei vizi capitali, delle virtù e delle beatitudini. E le sette virtù non sono le quattro cardinali e le tre teologali come potremmo aspettarci, ma proprio quelle derivate dalle beatitudini, a iniziare dalla paupertas spiritus, id est humilitas; mansutudo, sive benignitas…: le virtù delle Beatitudini e del Purgatorio dantesco. All’uscita da ogni cornice la loro proclamazione avviene da parte dell’angelo, figura divina; alla sua dolce bellezza è affidata l’espressione sensibile di ciò che esse significano (Chiavacci).

All’ingresso, tra gli esempi di virtù, primo è sempre quello di Maria. Lei che sta all’inizio e alla fine del poema, segno vivo dell’amore gratuito di Dio che «liberamente al dimandar precorre», è posta qui come Nostra Signora delle Beatitudini, incarnazione di quella benignità, dolcezza, amore che nelle Beatitudini risplendono. Maria sta all’inizio di ogni balza, quasi ad accogliere e ad accompagnare, maternamente, chi ha intrapreso il cammino della purificazione. Tra lei e le beatitudini stanno penitenza e preghiera. Pena del contrappasso, certo; ma a noi interessa sottolineare che si tratta del «dolce assenzio dei martìri», o come dice Mario Luzi nella sua riduzione teatrale del Purgatorio (La notte lava la mente) «l’amaro miele». Dolce amarezza: l’ossimoro dice insieme la durezza della pena, la fatica del cammino e il desiderio di purificazione, il desiderio di ritorno alla bellezza primigenia che Dio e uomo condividono.

«Io dico pena, e dovria dir sollazzo,

ché quella voglia a li alberi ci mena

che menò Cristo lieto a dire ‘Elì’,

quando ne liberò con la sua vena» (Pg XXIII 72-75).

Con la penitenza, la preghiera, superando d’un balzo il diverso parere del grande Tommaso: «Non sunt in statu orandi, sed magis ut oretur pro eis» (Non sono nella condizione di pregare, hanno piuttosto bisogno che si preghi per loro). Per Dante invece la preghiera è parte integrante del cammino; una preghiera, anzi, che è essa stessa cammino: In exitu Israel de Aegypto: mettersi a pregare significa abbandonare tutto ciò che ci tiene ancora schiavi per andare incontro in libertà al divino Interlocutore. E il primo passo è proprio quello di riconoscere la nostra distanza, come ci ricorda la seconda preghiera, quel Miserere che spande la sua eco per tutta la sacra montagna. E poi la preghiera della sera, con quell’anima che congiunge e innalza le mani, rivolgendo lo sguardo verso oriente, «come dicesse a Dio: “D’altro non calme”» (Pg VIII 12). Così si prega, totalmente consegnati, come sottolinea anche l’aggettivo devote che più volte ritorna, e ha la sua radice in de-voveo (de-vovere), nel votarsi totale all’Invocato da parte di chi entra in preghiera. Senza dimenticare la propria sofferenza e il proprio peccato; è sempre preghiera “in situazione” quella delle anime in cammino sulle sette balze, a cominciare da quella dei superbi, che pregano che venga la pace del Regno, ben sapendo che «noi ad essa non potem da noi, s’ella non vien, con tutto nostro ingegno» e chiedono la «cotidiana manna» perché senza di essa «a retro va chi più di gir s’affanna» (cfr XI 1-24). Fino alla preghiera di Matelda, con il semplice rimando al salmo Delectasti per spiegare le ragioni della sua gioia: Quia delectasti me Domine in factura tua (Mi hai dato gioia, Signore, nelle tue creature). La gioia di Matelda nasce da quella che possiamo chiamare la reductio ad unum: tutto ella riceve dalle mani di Dio; ogni realtà creata e ogni istante della sua esistenza sono riferiti a Lui, e così tutto diventa motivo di lode e di ringraziamento: vita e preghiera si sono ormai fuse.

Nel grande mistero della comunione dei santi non si può pregare solo per se stessi; anche le anime penitenti pregano «per quei che dietro a lor restaro» e a chi è ancora pellegrino sulla terra chiedono preghiere, ricordando soprattutto una serie benigna di figure femminili, dove il possessivo dice un affetto mai spezzato, né dalla morte, né dal trascorrere del tempo: la mia buona Costanza, Giovanna mia, la Nella mia

Soffrono liete e pregano, custodite dall’esempio materno di Maria e dalle beatitudini cantate dai divini messaggeri: così ascendono al santo monte le anime della seconda cantica.

Che è anche cantica dell’amicizia, in particolare degli amici della giovinezza; è cantica dell’arte e della poesia che ha ormai superato non solo ogni trivialità tenzonesca, ma anche il semplice gusto della parola che stupisce, per farsi poesia sapienziale, coniugata alla fede nell’ambito dell’ascesa a Beatrice e a Dio; è cantica del vivere civile con i due registri fondamentali dell’invettiva contro la corruzione presente e dell’elegiaco rimpianto per un felice passato ricco di valori ora perduti; è regno, il Purgatorio, del trascorrere del tempo, del succedersi di albe e tramonti, giorni e notti, proprio come da noi, dove la mezz’ora concessa è subito trascorsa mettendo fine al balbettio profano di un impacciato commento per lasciare spazio alla parola libera e liberante del sacrato poema.