Napoli, la “città mondo” al centro della scena

Torino, Milano, Parigi. E dopo Londra, New York, Buenos Aires. Nella notte del pareggio con l’Udinese, con l’assegnazione dell’ultimo punto necessario per diventare campione, il Napoli dopo trentatré anni riporta lo scudetto in città, ma la festa esplode in tutto il mondo.

Da capodanno simultaneo, senza la sospensione del fuso orario, le televisioni private occupano i palinsesti notturni con collegamenti dall’estero, nelle chat si sommano filmati di piazze con fuochi di artificio, bandiere e tifosi.

L’ubiquità di Napoli

Il trionfo della filosofa Wendy Brown, penso: in un mondo sempre più occupato da muri, labirinti e checkpoint, Napoli dilaga sulla superficie terrestre rompendo qualsiasi argine. Più gli estremismi impongono protezione, contenimento e paura, più la città conquista senza essere Stato, sovranità, comando e sforzo.

Solo una forte identità che ha perso completamente i riferimenti geografici. Al pari degli ebrei, può considerarsi unico popolo global: non importa colore della pelle, nazione e liturgia, puoi essere napoletano e desiderarlo ovunque tu voglia. L’importante è saper scherzare sulla morte, la cucina della propria madre e dio, non necessariamente in quest’ordine.

Un’appartenenza che è diventata anche brand, produzioni cinematografiche e televisive: ognuno vuole comprare Napoli, l’illusione è di averla anche messa in vendita. Per questo motivo è sbagliato pensare che il calcio rappresenti l’unica rivincita per una città destinata a perdere, così come lo scudetto sia l’apice di un momento di rinascita: Napoli è ancora l’ultima speranza che ha l’umanità per sopravvivere, come affermava Luciano De Crescenzo, ma adesso ne è completamente consapevole.

Insegna Roberto De Simone che ogni città ha un ritmo del cuore diverso: arrivando a Napoli, nella domenica poco prima della partita in casa contro la Fiorentina, la metropoli segue il passo accelerato dei tifosi con i cori da stadio, già dalle metropolitane.

Cattedrali incastonate in secoli di stratificazioni con le opere di Mimmo Jodice, Luciano D’Alessandro, Fabio Donato, gallerie d’arte che forse avrebbero suscitato l’ironia di Fran Lebowitz. Accanto ai supporter, ci sono gruppi di addii al celibato con veli corti, famiglie con passeggini per una camminata in centro, amici che si muovono per festeggiare un compleanno, coinvolgendo tutti i passeggeri sulla banchina intonando tanti auguri a te.

I figli del Vesuvio

Basta seguire il ritmo e accordarsi alla melodia: a Napoli ognuno trova il proprio spazio. Ma tema ricorrente del programma musicale è il coro nato in risposta alle tifoserie rivali “Vesuvio, erutta! Tutta Napoli è distrutta!”. Non è più la città che convive con la paura del vulcano: conosce i suoi stereotipi, li ribalta e ne ha fatto un punto di forza. “I figli del Vesuvio” ne evocano la potenza o la declinano con ironia per chi ne vorrebbe la distruzione.

Piazza Plebiscito alle due del pomeriggio inizia ad essere invasa da bandiere azzurre e fumogeni blu. Mentre all’ombra del colonnato del Teatro San Carlo turisti chiedono informazioni per le repliche, il vero concerto è composto da un’orchestra disordinata di vuvuzela e trombette imperterrite all’ingresso del Palazzo Reale.

È questo il palco dei grandi incontri per il pubblico napoletano: dal concerto di Pino Daniele del 1981, pochi mesi dopo il terremoto dell’Irpinia, a Bruce Springsteen che nel 2013 iniziò cantando ‘O sole mio per ricordare le sue origini di Vico Equense. E se stavolta la festa per la vittoria del campionato si concentrerà allo Stadio Maradona, chi non è riuscito ad entrare, pagare il biglietto, essere presente si sente ugualmente felice mancando l’esibizione di Liberato e la sfilata della squadra con le maglie celebrative.

L’importante non è esserci, ma essere. E tutte le strade sono il posto giusto, cantando Nino D’Angelo, improvvisando una coreografia su “chi non salta juventino è”, allargando uno striscione con scritto “Ricomincio da tre”. E per non far sentire a disagio neanche le statue equestri, qualcuno ha stretto allo scettro imperiale di Carlo III di Borbone, realizzato da Antonio Canova, la sciarpa da tifoso. Una coincidenza piena di ironia pensando all’incoronazione trasmessa in mondo visione da Londra solo poche ore prima: anche Carlo III di Windsor può essere offuscato da un’onda azzurra.

L’epicentro della gioia

Per Herman Melville si faceva fatica a distinguerla da Broadway, mentre per Stendhal era semplicemente indimenticabile. Da Libero Bovio a Renato Carosone è palcoscenico di incontri, amori e parate per farsi notare, una danza di sguardi tra chi ne è frequentatore abituale e turisti di un giorno, ma passeggiare oggi per via Toledo è un’esplosione di gioia da Boca a Buenos Aires.

Scendono dalle fermate della metropolitana, dalla funicolare del Teatro Augusteo, a piedi dalla Sanità e dagli altri quartieri: ogni tifoso con una maglia della squadra, originale o contraffatta poco importa, come anche la provenienza di chi arriva. E se molti indossano il numero nove dell’attaccante nigeriano Osimhen, la maggioranza sceglie il settantasette del georgiano Kvaratskhelia. Dalle misure troppo grandi anche addosso ai bambini di tre anni, fino alle slabbrature delle pance degli ultra cinquantenni che hanno appena finito di mangiare. Che sia un accordo tra il temperamento artistico della strada al suo dribbling, la musica del calciatore detta l’andatura del popolo che si muove, ancheggiando festoso per la fretta, armonioso ascoltando un artista di strada intonare Abbracciame di Andrea Sannino, ma con un’unica direzione possibile: Quartieri Spagnoli.

La mano di Dio

Salendo per Via Emanuele de Deo, si ha la conferma di partecipare a un pellegrinaggio: nel vicolo stretto e buio, tra friggitorie e bar, inizia la galleria d’arte dei murali dedicati a Diego Armando Maradona. Se per gli ebrei è stato fatto divieto di rappresentare dio, i napoletani come evoluzione del popolo global e pop, figli adottivi di Andy Warhol, infrangono il veto con ogni metro quadro a disposizione.

Asher Lev, pittore dei romanzi di Chaim Potok, avrebbe potuto riprodurre qualsiasi crocifissione senza temere nessuna rottura con la comunità: in questa città l’ortodossia serve solo per essere messa in discussione e trasgredita. E Maradona è sia il dio che la sua violazione. Mentre si ascende per l’incontro con il divino, scontrandosi, non con gli incensi da messa ma con i profumi di sfogliatelle appena sfornate e aroma di caffè tostato, cresce la sensazione di aver imboccato la strada per una cattedrale, l’emozione dei fedeli per i battiti di mani sempre più forti, le trombette schiacciate al petto come i battenti di Guardia Sanframondi, finché il buio, arrivati al ribattezzato Largo Maradona, lascia spazio alla luce.

A voler progettare architettonicamente una simile soluzione di effetto e devozione non si sarebbe riusciti a raggiungere lo stesso risultato. La luminosità acceca in questo pomeriggio di maggio tra i fumogeni che puzzano di zolfo e gli spritz che volano sopra le teste dei pellegrini. Una macchina perfetta di liturgia e intrattenimento entra in funzione: costeggiando il perimetro dell’area, ognuno ha il tempo di visitare il largo, cantando e ballando l’intera playlist dei cori a disposizione “Un giorno all’improvviso”, “Sarò con te”, “Vesuvio, erutta!” e tanti altri, lasciare un ricordo e scambiare una parola con Diego, ovviamente scattare un selfie con sfondo murale di Mario Filardi.

Un selfie con Maradona

Per chi volesse sistemarsi prima dello scatto, un enorme specchio sulla parete destra permette di guardarsi a figura intera. Una cura che ricorda il regista delle fototessere in Così parlò Bellavista, interpretato da Vittorio Marsiglia. E da pellegrinaggio che si rispetti, tutto si conclude, in ordine e tempistica, con la sosta souvenir. Si suggerisce al cattolicesimo di prendere appunti. Al rompete le righe, i genitori delle famiglie in visita contano e fanno l’appello dei bambini dispersi “Ognuno se vere ‘o figlie suje”, suggerisce una moglie al marito, in una scena a metà tra Il giudizio universale e Ieri, oggi, domani.

È un legame che eternamente si rinnova quello tra Napoli e il suo cinema. Osmotico, sopra le righe, caricaturale e sempre più spesso oleografico, ma non è un caso che sia Aurelio De Laurentiis il vero artefice di questo scudetto: da presidente del Napoli e al tempo stesso produttore cinematografico, nel vuoto di identità e politica del sindaco Manfredi e del governatore De Luca, è l’unico interlocutore con cui la città dialoghi.

La città del cinema

A costo di litigarci, scontrarsi, ha capito che l’ambizione di Napoli non è più il riscatto, ma una presa di coscienza delle proprie possibilità, un desiderio di scrollarsi di dosso i luoghi comuni e la narrazione dell’improvvisazione di cui è schiava, per diventare programma, realizzazione, primato. È giunto il momento in cui Napoli non si accontenta più di essere occupata dal cinema: Napoli vuole essere cinema.

E sorprende che un’operazione così determinata come l’apertura dell’Hollywood Reporter a Roma non abbia accarezzato per un momento la possibilità di essere allestita più a sud, abbandonando i salotti delle famiglie borghesi in crisi, i tradimenti, un cinema che non guarda alle strade ma solo dentro gli appartamenti dei piani più alti. Un’ambizione così grande avrebbe meritato una città imprevedibile e mai didascalica.

Piazza Carità, Piazza Monteoliveto, Piazza del Gesù Nuovo. Di corsa, prima del fischio d’inizio, con il desiderio dopo aver ballato e cantato, di interrompere il passo per novanta minuti, guardare la partita da un maxischermo e bere un bicchiere di vino nel centro storico. Se a Piazza San Domenico Maggiore c’è il tifo elegantemente seduto davanti al televisore contenuto di un bar, in via dei Tribunali i gazebi improvvisati in overbooking sono pieni di gente che reclama un posto e una birra.

In Piazza Bellini si cambia di nuovo scenario: tra i ficus e il Caffè Arabo, la partita si osserva dai telefoni sorseggiando Traminer e cantando The Ronettes. In un centinaio di metri, si sommano tre città, facendo invidia a Michel Gondry, in cui trova posto il turista, l’autoctono e lo studente.

Prendendo in prestito un’affermazione di Giuseppe Marotta: “A Napoli ogni idea è una persona. Ma anche un tifoso. E se la partita è fiacca, senza momenti memorabili, ci pensa comunque la strada a tenere il ritmo della festa, come un filo da spezzare mai.

È qui la festa

Qualunque angolo della città sembra cosciente dell’alto compito che le è stato affidato: la musica non deve interrompersi, il ballo non può frenarsi, la gioia non deve disperdersi. Una festa mobile, suggerirebbe Hemingway, in cui sembra che ci sia dati appuntamento con vecchi amici che non vediamo mai, ognuno con i propri dolori e gioie, commozione e voglia di raccontarsi questo piacere di essere qui, in questa città che accoglie proprio tutti, e mai solo chi ci è nato.

Il tempo che Osimhen segni su rigore al 74’ e da un bar di Piazza Bellini parte ‘O surdato ‘nnammurato, voce antica e unica in una metropoli che muta ad ogni angolo, ad ogni secondo, coro che Maradona commosso ricorda in Maradona in Messico: “Sai cosa significa cinquantamila persone che cantano questa canzone al San Paolo mentre entravamo in campo?” È in questo momento che si sommano tutte le Napoli, trapassate, presenti e future, quelle che preferiremmo dimenticare e quelle che per fortuna resteranno indelebili, i volti di chi non è potuto esserci, le storie, i racconti, e tutto il bene quanto il male che siamo stati disposti a sopportare prima di intonare a cuore aperto: “Oje vita, oje vita mia”.

Terzo fischio dell’arbitro, partita conclusa, vittoria. E visto che dall’Argentina a Napoli vincere ha il solo corrispettivo possibile in Maradona, a gran voce il pubblico reclama e canta La mano de dios di Rodrigo. Non basta un bis, non ci si accontenta di una terza replica, da Port’Alba alla Biblioteca, c’è solo “Marado’Marado’”.

Sono passati più di trent’anni, sia dai primi due scudetti vinti che dalla sua partenza improvvisa, eppure di Maradona, questa città non sarà mai sazia, e non perché fosse un re o dio – e quanto gli è costato esserlo, suo malgrado –  ma solo per la gioia, “gli attimi di dimenticanza” direbbe Totò ad Oriana Fallaci, o come canterebbe Rodrigo: “Llevó alegría en el pueblo, regó de gloria este suelo”.

Una forma di amore universale, a volte opprimente e intransigente, che supera le soglie temporali e spaziali. E la prova ne sono i quindicenni che girano oggi con le sue magliette e lo reclamano a gran voce, che hanno nostalgia per qualcosa che non hanno occasione di vivere e che adesso ringraziano, come se Maradona fosse l’artefice, il vero responsabile di un ritorno sul podio, l’espressione di un traguardo.

Elogio della spudoratezza

Riscendere via San Sebastiano, oltrepassare Santa Chiara, di nuovo giù, verso Piazza Municipio, ancora con la commozione delle torce dei telefoni accese cantando Napule è: da quando Paolo Sorrentino l’ha inserita nel finale di È stata la mano di Dio, sembra che emozioni di più.

Invecchiare è anche questo. “Che fatica la gioia” invece Napoli come svegliata dal triplice fischio, ha ripreso la sfilata, le moto, le auto, di nuovo tutti in strada, come se la partita contro l’Udinese non ci fosse stata, come non avessimo già vinto, mai stanca. Pretende di non smettere di ammaliare e come una danzatrice del ventre si dimena tra sciarpe azzurre.

Dei temerari a bordo di monopattini elettrici frecciano su via Medina, qualcuno sfoggia una terribile bandiera sudista con Luciano Spalletti incorniciato come il volto dello zio Sam, ma non c’è tempo per fermarsi: il cuore della città, il passo dei tifosi, questa sbronza continua di colori, rumori, cori e nessun motivo di averne abbastanza.

Di nuovo a Piazza Plebiscito, calata la notte, e qui a chiedere un ultimo giro di giostra, “ultimo giro di bevute, il bar sta chiudendo” direbbe Carlito Brigante. Torino, Milano, Parigi. E dopo Londra, New York, Buenos Aires, tutte queste città si saranno fermate da un pezzo.

E Napoli cosa vuole? Che a forza di far danzare i dervisci, smettano di rimproverarle le esagerazioni? Che perdonino l’amore per gli dei pagani e i santi riconosciuti? Che apprezzino la forza, dimentichino i luoghi comuni, conoscano un’identità che sa contenere tutti senza smarrirsi? Così spudorata, sfacciata e senza vergogna. Che nottata.