Giulio Giorello: lo spirito critico e la sfida del contemporaneo

È sempre difficile fare predizioni sul futuro: «Hanno la drammatica caratteristica di essere spesso duramente smentite». Di certo, però, chi ritiene che le trasformazioni epocali già in corso o che stanno per dispiegarsi su tutto il pianeta e oltre siano una esperienza unica nella storia del genere umano, e che forse ne decreteranno la fine, si sbaglia. Ce ne sono state tante e il genere umano ce l’ha sempre fatta, altrimenti non saremmo qui a parlarne. Il filosofo Giulio Giorello descrive la trepidazione che ha animato l’uomo in passato alla vigilia di precedenti e altrettanto radicali scoperte e invita i giovani a non tirarsi indietro, anzi, a lanciarsi nel mondo e nel futuro senza paura, dominando l’esperienza, non subendola. A viso aperto nel vortice, senza cercare soluzioni semplicistiche o, peggio che mai, prendendosela con capri espiatori. Ma prima di “buttarsi” occorre avere una buona formazione e, indispensabile, spirito critico – quello tanto caro a Bertrand Russell – vale a dire la corazza, la trama di cogito e raziocinio che respinge ogni affermazione senza prima essersi interrogati sulla sua validità; e che da una solida formazione discende. La sfida è alta: se non domineremo i fenomeni rischiamo il sorgere di un nuovo tribalismo attraverso la rete; se però riusciremo nell’intento, potremo sperare in un nuovo umanesimo, che sia tollerante, comprensivo, simpatetico. Il pessimismo e l’ottimismo sono due facce di una stessa medaglia: il buon vecchio Gramsci non aveva tutti i torti.

Professore, parliamo di umanesimo?

«Prima di tutto distinguiamo le scienze umane dalle discipline umanistiche. Per quanto riguarda le scienze umane penso alla biologia del corpo umano, alla psicologia, e forse ci metterei anche le scienze sociali. Pensando, invece, più in generale, al settore umanistico, è possibile spaziare in campi molto più vasti. Il primo che mi viene in mente è la letteratura: la prosa, la poesia».

Allora focalizziamoci su una materia in particolare, la filosofia. La domanda è provocatoria: la filosofia esiste ancora? Diciamo scherzosamente che… non la si vede molto in giro negli ultimi tempi.

«Io credo che la filosofia sia continuamente in rifacimento. Questo autorifacimento non deve diventare “un vuoto a succhiar se stesso” – come diceva, mi sembra, Hegel – perché la filosofia deve essere capace di aprirsi ad altre forme dell’attività umana. In questo senso, ricordo una lunga discussione aperta da due personalità della cultura italiana della prima Italia unita: da una parte il filosofo Antonio Labriola e dall’altra Benedetto Croce. Tutti e due ritenevano si dovessero inserire dei corsi di filosofia in quelli che noi oggi chiamiamo dipartimenti scientifici: si doveva trattare di filosofia matematica, filosofia fisica, filosofia per le scienze della vita, insomma. Nonostante l’impegno di quelle due persone, ciò è rimasto lettera morta. In seguito sono state importanti le lotte di Ludovico Geymonat non solo perché rinascessero logica e filosofia della scienza in un corso di laurea di filosofia, dunque dentro l’ambito di Lettere, ma anche perché si facessero dei corsi di filosofia o di storia della scienza, di qualche scienza particolare, presso dipartimenti scientifici. Questo progetto ha avuto buoni risultati, penso alla cattedra dello stesso Geymonat, a Milano dal 1956; altri dipartimenti scientifici hanno dato risposte di buona volontà».

Oggi è stata recepita questa proposta?

«Faccio un esempio, il caso del professor Telmo Pievani, che insegna Filosofia della biologia al corso di laurea in Scienze biologiche, a Padova, e nello stesso tempo ha lavorato a lungo alla conservazione e all’apertura di nuovi spazi dell’Orto Botanico. Però il suo è un caso piuttosto isolato. Poi, per esempio, a Matematica c’è stato un brillantissimo e bravissimo storico della matematica, Umberto Bottazzini, molto attento nel ricostruire momenti chiave della storia di una qualche disciplina matematica anche con delle ricaduteumanistiche. C’era stato il caso interessante di Enrico Bellone, personaggio molto vivace che ha insegnato a lungo Storia della scienza a Milano; ha scritto un libro che ha fatto versare parecchio inchiostro, pro e contro: Il mondo di carta, legato alle polemiche di Galileo ma con tematiche vicine alla filosofia e alle scienze dell’800 e del ’900. Ma queste non sono ancora la normalità; sono preziose eccezioni».

E tra gli scrittori, chi potrebbe secondo lei avere questa doppia veste filosofico-scientifica?

«Penso a Italo Calvino, al poeta Andrea Zanzotto, a Umberto Eco. Eco e Calvino sono stati due umanisti aperti, estremamente vivaci, nel senso di aver saputo affrontare il complicato ma affascinante problema del rapporto tra il sapere umanistico e quello scientifico. Io non credo che la divisione fra queste due culture sia una divisione così netta; può servire giustamente ai presidi di facoltà per fare l’orario delle lezioni e assegnare le date degli esami, ed è giusto che sia così! Mi viene anche in mente Pirandello e, andando indietro nel tempo, la figura affascinante ancora oggi di Giacomo Leopardi, non solo per la mirabile grandezza della sua poesia, ma per la riflessione filosofica, genuinamente filosofica, dispiegata nello Zibaldone e in un’interessantissima Storia dell’astronomia scritta da giovanissimo».

In questo mondo che cambia così repentinamente, in questa società così tecnologicamente spinta in avanti in una maniera parossistica, emerge, ne sono convinti anche molti scienziati, un bisogno di orientamento, di un nuovo umanesimo come dicevamo prima. Insomma, di un nuovo tipo di filosofia che aiuti l’uomo a orientarsi in un contesto che forse gli sta sfuggendo di mano…

«In un bell’insieme di interviste “cucite” dal grande regista Werner Herzog, uno dei protagonisti della ricerca sull’intelligenza artificiale disse: “Non vorrei che proprio le grandi conquiste tecnologiche ci facciano dimenticare il senso critico”. Secondo me la difesa del senso critico è un punto fondamentale. Penso a quegli atteggiamenti talvolta un po’ irrispettosi, un po’ irriverenti di quello che per me è uno dei filosofi migliori del ’900, Bertrand Russell. Era anche un uomo molto sensibile alle scienze, si era occupato dei fondamenti della matematica. Questo bisogno di senso critico Russell ha continuato a ribadirlo anche nei momenti difficili della sua vita, e fu sempre per lui qualcosa di inestimabile: perderlo sarebbe stato un disastro. Russell aveva in mente, per esempio, il Saggio sulla libertà di John Stuart Mill, grande punto di riferimento, e una serie di pensatori che avevano avuto il coraggio di mettere il naso nella scienza, rischiando anche un po’ di bruciarselo. È il caso di Thomas Hobbes contro i matematici britannici del suo tempo, oppure, quello più fortunato, dell’irlandese George Berkeley e dei matematici e fisici newtoniani. Battaglie di idee. In certi casi poi, se si vogliono capire realtà complesse del nostro Novecento, qualche buona escursione nella letteratura val la pena di farla: possiamo capire moltissimo dell’Irlanda e di tutta la storia tormentata di quel paese, se leggiamo Joyce. E poi, chi ci fa capire meglio le oscillazioni di coscienza se non Robert Musil con L’uomo senza qualità? A me sembra un testo fortemente significativo per comprendere tanto della nostra storia europea. Ancora, Lolita di Nabokov, le poesie di Apollinaire o anche di Prévert».

Ritiene che manchi una nuova generazione di filosofi? Non riescono a emergere oppure…

«Noi siamo invecchiati tutti. Altri stanno emergendo, con pazienza li conosceremo».

Gettando uno sguardo al futuro: i progressi della genetica consentiranno un allungamento della vita, mediamente un miglioramento delle condizioni di salute. Avremo persone novantenni che potranno correre la maratona…

«Bisogna saper correre anche le maratone intellettuali, sebbene siano difficili. Impegnarsi nell’atteggiamento critico credo che giovi al miglioramento della persona, in senso completo, sino a tendere al miglioramento delle comunità in cui questa persona si trova. Dico comunità, ma io non amo parlare di un comunitarismo univoco. Noi siamo persone dall’identità multipla, con parecchie tesserine d’appartenenza intellettuali: dalla squadra del cuore, fino ai libri che uno preferisce rileggersi ogni tanto e a quelli che invece lascia da parte perché li ritiene ormai polverosi. Siamo persone con più tessere in tasca – parlo per metafora. Impediamo che una tessera prevalga su tutte le altre. Come si mantiene una freschezza intellettuale in un corpo che può servirsi dei progressi, delle tecniche della salute? Ecco, questa pluralità di intendimenti secondo me è molto utile. Vogliamo invecchiare bene. C’è stato un bell’articolo di Edoardo Boncinelli, sull’ipotesi di vita fino a 120 anni. Boncinelli scrive che questi risultati, che cambiano la natura della cura, sono anche dei risultati importanti per il modo di concepire noi stessi e le comunità cui apparteniamo. Questo mi sembra un punto essenziale, espresso in quel caso da Boncinelli stesso, con la consueta chiarezza ed eleganza. Secondo me l’atteggiamento critico è sempre molto importante. Ma perché questo possa fiorire, perché non si finisca a fare il critico solitario sulla propria poltrona che non mette il naso fuori casa, occorrono anche le condizioni che permettano all’atteggiamento critico di dispiegarsi. Quindi libertà e atteggiamento critico si sostengono in un circolo virtuoso, e non vizioso».

Come si instilla lo spirito critico negli adolescenti di oggi, concentrati come sono su smartphone, internet, proiettati in un frullatore di informazioni non approfondite?

«Credo non lo possa instillare nessuno. Teniamo presente che l’affastellamento delle notizie esisteva già quando ci fu una prima diffusione della stampa: si diceva “Ah, quante sciocchezze che si trovano sui giornali! Come faranno i nostri giovani a orientarsi?” Alla fine ce l’hanno fatta. Lo stesso credo si possa dire non soltanto per la libertà di stampa ma anche per l’accesso alla rete. L’accesso alla rete, come ha scritto recentemente Luciano Floridi in un bel libro, è una grande occasione. La ristrettezza mentale potrebbe rovinare questa opportunità. Dopo tutto, è una questione di coscienza. La coscienza – e qui sono molto d’accordo con Boncinelli – non è qualcosa che ti arriva già bella e fatta, che si impianta dentro il nostro corpo; la coscienza è una costruzione che richiede molta fatica, proprio come mantenere un corpo in buona salute. Quindi è con pazienza, e anche con grande amore nei confronti degli altri – e fra gli altri metto anche noi stessi, non è un paradosso – che deve procedere questa preziosa fatica. Certo, è una sfida; se la si perdesse, temo che potrebbe sorgere un nuovo tribalismo proprio attraverso la rete. Però è interessante vedere che molte delle persone che hanno anche contribuito alla crescita della rete oggi siano le prime a essere consapevoli di questo rischio, e questa consapevolezza è già un segno di nuovo umanesimo».

Non siamo stati in grado di prevedere ciò che poi è successo, e così velocemente. Ora bisogna correre ai ripari?

«Sono dell’idea che tutto succeda abbastanza velocemente. Anche in passato è accaduto. Pensiamo a cos’è stata l’invenzione della macchina a vapore: ha cambiato la faccia del mondo; e poi, cosa ha significato il telegrafo e quindi il telefono. Insomma, la tecnica continua a darci invenzioni estremamente utili. Ma il significato di queste invenzioni sta proprio nelle sfide problematiche che ci propongono. Se noi non abbiamo il coraggio di affrontarle, allora la partita non è ben giocata. Sono dell’idea che iniziare una partita in posizione puramente difensiva sia miope: bisogna avere l’audacia di un confronto franco e leale con le nuove tecnologie. Come dicevo prima, sono tante le personalità interessanti in questi settori che vengono dalla grande tradizione letteraria, le abbiamo citate prima. Non bisogna dare per persa una partita, anche se è difficile. E più la partita è difficile, meno bisogna darla per persa. Non è una forma di facile ottimismo; per citare il buon vecchio Gramsci, è ottimismo della volontà – che tuttavia è l’altra faccia del pessimismo dell’intelligenza».

Le scoperte di questo ultimo secolo e mezzo sono senza dubbio rivoluzionarie e il loro impatto riguarda direttamente l’uomo, anzi, forse per la prima volta lo riguarda interiormente. Mentre prima cambiava il mondo al di fuori di lui, oggi con gli sviluppi della genetica, delle neuroscienze, sta cambiando proprio lui, l’uomo.

«Sono tendenze che c’erano già prima. Penso a cosa è stata la scoperta dei vaccini, che a me sembra un momento epico della storia della medicina e della salute. Penso a una cosa che sembrava a prima vista semplice: convincere i medici che toccavano i malati a lavarsi le mani – l’idea di Semmelweis. Penso sempre a quel testo della tesi di Céline, grande letterato, che aveva capito molto bene un momento delicatissimo della storia delle scienze, e delle scienze mediche nella fattispecie. Quelle di oggi sono tendenze di lunga scadenza perché hanno le radici nei secoli passati. Bisogna tener presente che oggi abbiamo l’impressione che la produzione scientifica si stia ramificando tantissimo e la ricaduta tecnologica avvenga a un ritmo particolarmente rapido, quasi vorticoso. Credo che la cosa migliore sia buttarsi nel vortice, non scappare. Questo è, secondo me, l’atteggiamento del miglior umanesimo: il coraggio di guardare in faccia una realtà estremamente difficile e complessa, senza cercare soluzioni semplicistiche, peggio che mai andare a prendersela con capri espiatori; bensì occorre usare questo atteggiamento che io chiamo critico ma anche autocritico. Prendo una frase di Paolo Rossi, il filosofo e storico delle idee, il quale diceva che “dobbiamo avere ragionevoli speranze”. Salvando questo senso della libertà di critica secondo me si possono avere ragionevoli speranze, che sono tali proprio perché vengono continuamente esse stesse criticate, alla continua ricerca delle buone ragioni. È un lavoro umanistico, questo: è ciò che dovrebbero fare i filosofi nei dipartimenti scientifici, e non solo lì».

C’è un nuovo uomo che sta per comparire. Sarà molto più forte, sarà il supersoldato o il civile che beneficerà dell’esoscheletro; ci saranno umanoidi nei luoghi di lavoro, nelle case…

«Ci sono motivi politico-economici cui prima non avevamo guardato. Penso alla Cina tanto per fare un esempio. Questi automi saranno realtà che sperimenteremo in tempi brevi».

Arriveremo preparati a questo futuro prossimo?

«La preparazione viene con le cose. Non possiamo pensare di avere degli schemi che ci permettono degli a priori storici; a un certo punto dobbiamo anche avere il coraggio di cambiare alcune delle nostre categorie di fondo ed esercitare ancora il senso critico. Senza paura, perché la paura io ritengo sia davvero una cattiva consigliera. Si può costruire con la paura, si costruisce di fatto nella paura, ma è un pessimo materiale da costruzione».

Quindi buttarsi? Partecipare?

«Sì, partecipare certamente, ma soprattutto non fuggire. Non fuggire, provare invece a cambiare quello che riteniamo sia un ostacolo a una più completa fioritura umana – se vogliamo usare questa metafora dei fiori, anche se non ne sono particolarmente entusiasta… È un periodo in cui molti miei colleghi si stanno occupando, con vari interessi e con diverse prospettive, non solo degli animali ma anche del mondo vegetale, che è un mondo di una ricchezza incredibile».

Come fa Stefano Mancuso, il neurobotanico.

«Pensavo proprio al successo delle posizioni di Mancuso, che ho avuto modo di conoscere quando, insieme con il mio amico Pier Luigi Gaspa, ha scritto un libro con molte illustrazioni sulle piante del fantastico, ed è stato proprio un bel viaggio. Vuol dire che la parte migliore dell’immaginazione umana è uno strumento ancora interessante, utile per capire il mondo in cui viviamo. E per capire anche i nostri limiti e fare un paziente lavoro su tali limiti».

Professore, cosa ne pensa del transumanesimo? C’è da esserne affascinati ma anche inquietati, progetti folli o opportunità fantastiche, messi in campo da visionari ma anche da scienziati serissimi.

«A me sembra ci sia molta retorica, e non sempre alta, una retorica fin troppo facile rispetto ad altri problemi del nostro mondo. Teniamo presente che il nostro mondo è fortemente squilibrato: si pensi alla fame, al rischio di sovrappopolamento, ad alcuni aspetti dell’aggressività, basti ricordare quel che è accaduto in Europa soltanto pochi decenni fa, a cosa succede oggi nel Medio Oriente, alla questione dell’emigrazione verso l’Europa. Di fronte a questi squilibri, prima di parlare di transumanesimo a me piacerebbe che si parlasse di un umanesimo tollerante, comprensivo, simpatetico. A me basterebbe. E mi sembra che qui, ancora, come dicevo, possano trovarsi a convergere grandi scrittori e grandi scienziati. D’altra parte ci rendiamo conto oggi, dunque col senno di poi, che leggere Charles Darwin è leggere anche un magnifico prosatore, un maestro della lingua inglese; chissà che poi non si dirà lo stesso di Einstein, di Bohr, o magari di Schrödinger, grandi figure che sono state anche capaci di non chiudersi in steccati disciplinari ma andare oltre. Si pensi a quanto è bello quel libretto di Schrödinger, Che cos’è la vita, un testo che è stato seminale per le scoperte relative al DNA. Ecco, allora sarebbe bello che nelle scuole “di ogni ordine e grado” episodi come questo diventassero ben noti, diventassero un punto di riferimento esemplare nella nostra educazione alle scienze e alle lettere».

Se la scienza intervenisse in maniera pesante sulla struttura umana in qualche modo potrebbe placare impulsi come l’aggressività, spegnendo forse un po’ di vivacità. Crede che la scienza potrebbe creare un uomo migliore, più prodotto da laboratorio ma placato?

«Io non credo che i prodotti di laboratorio, per il solo fatto che sono tali, siano belli e buoni. Magari saranno belli; sulla bontà continuo ad avere forti dubbi. Di nuovo, l’atteggiamento critico ci accompagna verso un certo prudente scetticismo come diceva il grande filosofo David Hume. Questo sereno scetticismo dovrebbe non farci illudere che la scienza possa donarci una forma di bontà. La bontà è una conquista ed è una conquista di ciascun individuo. Se questa lotta per conquistare la bontà non viene combattuta con consapevolezza, se è una bontà elargita, per esempio da sostanze chimiche, è di basso livello e di poca consistenza. E credo che sia molto facile per qualche cattivo farla esplodere».

Non durerebbe, in ogni caso.

«Non so se durerebbe o no. È sempre difficile fare predizioni sul futuro: hanno la drammatica caratteristica di essere spesso duramente smentite. L’importante è andare avanti, come diceva Darwin, “Se certe mie ipotesi – parlava della sua teoria dell’evoluzione – non funzionano, io non smetto per questo di accumulare fatti e di farne di nuove. Butto via quelle vecchie che non hanno funzionato e poi, appunto, ne faccio di nuove”».

La possibilità di ricostruire il proprio intero patrimonio genetico a volte somiglia a determinismo: possiedo questo patrimonio genetico, devo necessariamente comportarmi in questo modo…

«Be’, non è così meccanico. Un autore come Boncinelli fa vedere che se da una parte il patrimonio genetico è fondamentale, d’altra parte non significa che siamo in toto determinati, perché le possibilità di quello che lo stesso Boncinelli chiama “caso” non vanno dimenticate. Qui “caso” è un insieme di cause che non siamo in grado di specificare o che è troppo costoso specificare con indagini concrete. Però questo elemento è significativo. Se dovessi aggiungere qualcosa di mio, non mi andrei a impelagare nei discorsi sul libero arbitrio: a me non interessa tanto se sono determinato in toto dal mio DNA o meno; piuttosto, non voglio essere determinato dal DNA di qualcun altro. Quindi quello che a me sembra importante è la libertà che Hume, uno dei miei filosofi preferiti, chiamava “l’assenza di costrizione esterna”. Un individuo può essere un libertario anche se è convinto che il libero arbitrio non esista. Esempio: Baruch Spinoza, filosofo meraviglioso, scriveva nell’Etica e in altri contributi: “Stiamo attenti a non essere costretti esternamente”. E questo nonostante pensasse che l’uomo non fosse libero in un senso metafisico. Era tuttavia importante che gli individui e le varie comunità politiche non subissero vincoli imposti da altri. Se Hume aveva alle spalle l’esperienza anche travagliata della sua Scozia, Spinoza aveva in mente la fioritura della civiltà delle Province Unite, l’Olanda in senso lato, nel quale ambito si era formato e nel quale ambito si era battuto proprio per la libertà; libertà come assenza di costrizione esterna».

Con le teorie psicoanalitiche si è riusciti a comprendere parzialmente i disagi, le nevrosi, alcuni grandi dinamiche del funzionamento del cervello, riuscendo anche a prevedere talvolta cosa sarebbe accaduto o sarebbe potuto accadere…

«Erano però predizioni molto qualitative e qualche volta un po’ a spanne, però… meglio che niente».

Meglio che niente. In qualche modo la teoria freudiana serviva…

«Non ne dubito, per carità, me ne guarderei bene dal dire che la psicoanalisi vada tutta cacciata via. Condivido non poche critiche di Popper a questa disciplina, ma questo non vuol dire che la psicoanalisi non abbia detto cose interessantissime. Oggi però, grazie alle neuroscienze si ha la possibilità di vedere, anche plasticamente, il formarsi di un pensiero, il lavorìo delle sinapsi… Osservare il lavorìo delle sinapsi, diciamola così, è un grande progresso, senza dubbio».

Non ritiene possa essere qualcosa di rivoluzionario? Forse anche devastante?

«Temete forme invasive di controllo?».

Temiamo da un lato forme invasive di controllo, ma dall’altro lato qualcosa che rivoluzioni il modo in cui noi ci conosciamo e ci percepiamo.

«Torniamo sul libero arbitrio? Come dicevo, ne ho discusso a lungo con Edoardo Boncinelli e mi sembrava che né io né lui ci credessimo troppo. Quelle discussioni sono state pubblicate nel volume Lo scimmione intelligente, un po’ di anni. Forse ne scriveremo ancora… Anche qui: un conto è il problema di forme di controllo invasive, un altro è rivoluzionare totalmente un insieme di credenze che noi ci siamo fatti su noi stessi. Dopo tutto, la scienza è andata avanti rivoluzionando continuamente sistemi di credenze. Si pensi a cosa hanno significato Copernico e, ancora, Darwin; o, se vogliamo parlare di rivoluzioni scientifiche più vicine, che cosa hanno rappresentato la relatività speciale e generale di Einstein e la stessa fisica quantistica. Per non dire della biochimica o della biologia molecolare. Noi andiamo avanti rivoluzionando un intero castello di credenze. Ma in questo rivoluzionare credenze non ci vedo solo dei rischi, che ci possono essere, ci vedo grandi vittorie dello spirito critico. E sotto questo profilo non ho timore che molte delle conoscenze acquisite possano “saltare”. Per dirla con Giordano Bruno – lo parafraso liberamente – “criticate, criticate, del buon vecchio antico però non si butterà via niente”. Mi piace questa citazione perché era un filosofo entusiasta della novità scientifica, pur non essendo, ovviamente, uno scienziato nel senso attuale del termine. Non vorrei fare la sua fine, sinceramente… Dopodiché, cerchiamo di non buttar via nulla del buon vecchio antico. La relatività di queste nostre conoscenze noi la percepiamo attraverso uno spassionato studio del pensiero scientifico. Lo diceva molto bene, nel secolo passato, un grande matematico con aperture filosofiche, Federigo Enriques. Aveva ben capito come la storia della scienza fosse nello stesso tempo un’attività di valore civile, dunque rivolta a tutto il pubblico, e un utile strumento per gli specialisti che avessero voluto andare avanti: questo doppio aspetto è un enorme elemento di ricchezza. Anche Ludovico Geymonat, che ricordavo prima, ha avuto la sensibilità di cogliere tale aspetto e ha cercato di realizzarlo nella sua attività dentro l’istituzione universitaria. Non solo: pensiamo, per esempio, all’importanza che ha avuto e che ancora ha la Domus Galilaeana di Pisa, che è anche un grande archivio di documentazione scientifica. Naturalmente, quando parliamo di storia relativa alle scienze, non pensiamo solo all’aneddotica spicciola: è importante capire che la storia non è fatta soltanto da generali e condottieri ma anche da grandi scienziati. Abbiamo avuto, tuttavia, un grande condottiero come Lazare Carnot che fu anche un grandissimo matematico. Indipendentemente da queste coincidenze, quello che a me sembra importante è proprio il valore civile di chi fa ricerca scientifica. Un valore civile che, se lo si gioca bene, è un modo per non perdere tutte le occasioni interessanti che ci danno le nuove tecnologie, a cominciare dalle tecnologie dell’informazione».

Oggi viviamo esistenze connesse, sempre online, offrendo i nostri dati sensibili, le nostre relazioni, emozioni, speranze a techno-corporation in grado di predire il nostro futuro, con un margine di errore bassissimo: quando ci sarà un’influenza, quando le donne resteranno incinte in un certo luogo…

«Finché si predice quando ci sarà un’ondata di influenza, la cosa non mi preoccupa, anzi mi permette di prendere provvedimenti per non prendere l’influenza o almeno per prenderla in forma non grave. Sulla questione dell’incremento demografico la cosa mi sembra molto più preoccupante. D’altra parte, se consideriamo le polemiche che ci sono oggi tra i demografi… C’è chi dice che siamo in troppi, c’è chi dice non siamo in troppi ma la Terra ci può ancora sostenere anche se cresciamo e, addirittura, c’è chi, come il filosofo sudafricano David Benatar, afferma che sarebbe meglio se cominciassimo da zero, cioè se l’umanità smettesse di mettere al mondo figli.  Come vede, gli esperti demografici sono ben lontani da essere unanimi e, ancora una volta, questa mancanza di unanimità non è necessariamente un male. Perché, se c’è dissenso, c’è possibilità che idee interessanti vengano fuori e siano per lo meno prese in considerazione».

Non crede che condizionamenti esterni da parte delle technocorporations siano talmente forti che non riusciamo ad accorgercene?

«Sono dell’idea che questo sia un punto molto importante e c’è tutta una serie di persone che adesso se ne occupa. “Se trovi un potere irresistibile opponiti però con più forza, e vincerai”: forse era Popper. In Irlanda, specialmente nelle sei contee che sono ancora occupate dai britannici, sia i repubblicani sia gli unionisti filobritannici, curiosamente, hanno lo stesso motto: “No surrender”, non arrendersi».

Il filosofo Giorello come immagina il futuro da oggi a 15, 20 anni?

«Per quanto riguarda me stesso è un futuro che sfuma, per ragioni banalmente biologiche. Credo sia sempre difficile fare previsioni sul futuro: come dicevamo, è probabile che possano essere duramente smentite… Se dovessi immaginare una sorta di futuro dei prossimi anni, direi un futuro in cui la crescita tecnologica sarà fortemente aumentata ma anche un futuro in cui ci saranno persone, soggetti responsabili capaci di non dare le spalle al cambiamento, di non fuggire di fronte a esso. Questa è la mia “ragionevole speranza”. Il pessimismo e l’ottimismo sono due facce di una stessa medaglia: il buon vecchio Gramsci non aveva tutti i torti. Dobbiamo stare attenti a non pensare che alcune linee di tendenza dureranno per sempre. Paul Feyerabend diceva che per secoli è stata umiliata la concezione dei movimenti della Terra finché da Copernico in poi qualcuno seppe riprendere questa idea e farne lo strumento per sconfiggere coloro che l’avevano temporaneamente sconfitta. Questo è ciò che ci insegna la scienza. Feyerabend aveva colto il punto con la sua consueta intelligenza».

[Estratto da “Filosofia per i prossimi umani” (Giunti), di Francesco De Filippo e Maria Frega. L’intervista è stralciata, per gentile concessione dell’Editore]