“No, non è più possibile così, non è più possibile che noi, che il sole, gli orologi, i negozi, la luna, le coppie, che gli alberi nei viali rinverdiscano, che il sangue nelle vene, la primavera e l’autunno, la gente, semplicemente, che ci sia banalità nel mondo… che i figli degli altri, la loro luce e il loro calore…”.
Si cade fuori dal mondo e dal tempo in luoghi diversi. Ciascuno ha il suo. Uri Grossman, uno dei tre figli dello scrittore David, si trovava in quel momento nel sud del Libano durante un’operazione delle forze di difesa israeliane nel conflitto militare in corso contro i miliziani di Hezbollah. Era l’estate del 2006.
Quando chi si è molto amato muore, si cerca di aggrapparsi a qualcosa per non precipitare con lui: si evoca magari un celebre quadro di Böcklin, Die Toteninsel, che rappresenta un approdo su un’isola lontana e, forse, persa nell’emisfero australe dell’oceano implacabile dove aveva navigato, secoli fa, il multiforme eroe.
Dopo il congedo, mentre l’Orrore scende sulle spalle e spinge, incurva e piega, si desidera pensare il proprio viaggiatore su una lieve galea, mentre s’insinua nella stretta baia in penombra. In realtà, durante l’Orrore, non si immagina proprio nulla. Si scivola e basta. O si scrive, per provare a “capire”, come dice il Centauro in Caduto fuori dal tempo, memoir corale di prosa poetica e dialoghi teatrali e flussi di coscienza composto da David Grossman a partire dall’aprile 2009 e concluso nel maggio 2011, cinque anni dopo la scomparsa di Uri in guerra.
“Non tornare laggiù, a quei giorni non tornare, non volgere lo sguardo indietro”.
Nato nel 1954 a Gerusalemme, Grossman ha avuto una brillante e prolifica carriera letteraria ma è con questo testo in apparenza straniante perché non riconducibile a un genere preciso che raggiunge vertici di poesia altissima.
All’inizio ci sono un Uomo e una Donna, sposati e soli dentro una cucina, mentre scende la sera: con un movimento inatteso e brusco, l’uomo si alza da tavola, saluta la moglie e comunica che deve andarsene. Ora, senza indugi. Laggiù. Un vago avverbio di luogo con cui allude a un limbo tra il regno dei defunti e il mondo dei vivi.
È convinto, o spera fortemente, che il figlio si trovi lì. Il padre chiede tempo, ancora un giorno o un altro abbraccio, pur frettoloso e rabbioso verso l’ordalia toccata in sorte. A lui. Alla famiglia.
Tempo che finisce ma non avvisa: è un Genio burlone e maligno, ridanciano e grottesco, quando termina senza avvertirti. Non lo fa quasi mai. La Donna, che quel figlio aveva partorito, ha temuto per anni lo strappo ma quando il velo realmente si squarcia, curioso a dirlo, ti coglie di sorpresa. Possibile sia davvero accaduto a te, a me? A noi?
“Un ‘no’ cupo e gelido spirò dalle pareti, mi avviluppò il corpo, mi chiuse e sprangò l’utero. Pensai: sigillano la casa che un tempo sono stata io”.
L’Uomo vorrebbe che la moglie lo accompagnasse ma lei è scettica, allora il padre parte da solo e vaga senza meta, prima intorno alla casa, quindi in modo labirintico ed errabondo tra le strade della città, mentre lentamente a lui si uniscono personaggi che vivono lo stesso dramma, l’amputazione oscena e innominabile: la morte di un figlio.
Fra i membri del Coro urbano improvvisato ci sono un vecchio insegnante incaricato di scrivere le cronache cittadine, un Duca proprietario terriero, una riparatrice di reti da pesca, una levatrice e una figura ibrida di Centauro, la cui parte inferiore del corpo non è un cavallo, bensì una scrivania. È un intellettuale che scava nelle parole per dare consistenza a una perdita che non ne ha alcuna. Afferma di comprendere solo ciò che mette nero su bianco, altrimenti gli eventi sfuggono ed evaporano.
La marcia dei genitori prosegue, con monologhi o dialoghi in cui ognuno parla di sé e possiede una voce, che Grossman trasforma nella lingua universale della sventura.
Arriveranno laggiù? Sì, giungeranno infine in uno strano limbo che altro non è che l’esilio dal mondo a tempo indeterminato. I dolenti sono fuori dalla socialità, un figlio che ti precede nel sepolcro butta chi rimane ai margini e costringe a una resa dei sensi e dei sentimenti. La pugna definitiva è contro l’oblio e in sostegno della memoria, come ripete il Centauro. I ricordi vanno sottratti alle tenebre, perché siano riconsegnati alla vita.
“Una dopo l’altra si spensero le parole, e fummo come una casa nella quale a poco a poco si spengono tutte le luci, finché cade una fosca quiete”.
Che cos’è, concretamente, il processo ininterrotto del lutto? Passa il tempo e hai alcuni momenti discreti, ti sembra di “funzionare”, lavori e ti occupi della casa, incontri amici e reprimi i sensi di colpa perché ti sorprendi – sempre meno ma accade – a sorridere. Poi un giorno, mentre stai guidando verso casa, esplode una frase in testa, dal nulla: “Non sentirò mai più la sua voce dirmi ‘ti voglio bene’”. Ed è finita, il fiato si blocca in un punto impreciso dello sterno. Annaspi.
Devi velocemente accostare l’auto in un’area di sosta o a bordo strada perché non respiri, hai macchie pulsanti davanti agli occhi e anche se l’aria arrivasse nei polmoni non riusciresti a controllare il mezzo perché le lacrime sono un lago che tracima e offusca la visione. Il Vajont. In testa e nello stomaco.
A ogni risveglio, i dolenti si sentono come il deforme prelato nell’opera di Francis Bacon. Immenso, lacerato Bacon, nei cui dipinti si sprofonda per trovare l’origine del vuoto. Dell’angoscia celata, del nocciolo amaro di un’anima ormai senile e appassita. Francis e i suoi vomitati colori cullano chi è isolato, suggeriscono ipnosi e oblio necessario. Rammentano tagli e squarci, chiamano a sé. I genitori orfani spesso sono lì. Ogni mattina, il taglio riemerge. E, con esso, incredulità e sospensione del reale.
“I suoi odori… dolce, piccante, acre. I suoi capelli lavati, la sua carne pulita… le semplici spezie del corpo”.
Ci sei, figlio? Oltre la porta, nel tuo letto sfatto e profumato di sudore e di sonno? Promesse di giovinezza, quant’è bella! che pur fugge tuttavia. Il giaciglio è vuoto e sarà per anni e anni rifatto da mani delicate e sapienti. L’armadio resta occupato: finché la madre vive, l’accesso a quel guardaroba è proibito. Nulla si tocca, niente si seleziona. Tutto, anche gli oggetti minimi e lisi, rimangono ad attendere chi è partito per un viaggio di sola andata. Poco importa. Una vita riposta nei cassetti.
L’Ade è qui e ora: fra le tute da ginnastica sbrindellate, nelle pieghe della divisa stirata con cura o tra i fili di un maglione blu elettrico che un giorno recheranno tracce di tarme. Adesso trattengono l’odore buono di un figlio, un’illusione. Come nel mito greco di Demetra e di Persefone, madre e figlia simbiotiche e inseparabili, quando la fanciulla fu a tradimento trascinata nel regno di Pluto, la madre di ansia impazzita annullò in un sol colpo, con il suo eterno pianto, le quattro stagioni. Da allora, sul mondo cadde un lungo e piovoso inverno, alimentato dalle lacrime della dea che vagava tra la Beozia assediata dalla neve e la Tessaglia di misteri fitta. Poi, a lei fu concesso il dono olimpico di una trattativa. Del resto, era essa stessa divinità e poteva chiedere, minacciare, reclamare e contrattare. Altrimenti, addio primizie estive.
Ai genitori raccontati da Grossman, in viaggio verso un limbo imprecisato, in affanno e stravolti come la patrona dell’agricoltura orbata dell’unica adorata figlia, non sarà data la consolazione di un incontro, nemmeno pochi minuti per alleviare la pena. Buio fitto. Rimane l’horror vacui che si fa strada nei pensieri di chi un tempo ha amato, accudito, carezzato piano e celebrato quei corpi sepolti.
E il vero strazio deriva dal sapere che non c’è alcun vuoto, sotto la pietra. Esiste un pieno, invece, costituito da tutto l’Amore del mondo che si credeva non potesse disfarsi mai. Eppure quel pieno si sta, lentamente ma seguendo le feroci costanti della biologia e della chimica, decomponendo. Una cellula dopo l’altra. Un osso. La pelle curata. I muscoli che avevano sostenuto il Figlio nelle corse sulle colline della giovinezza. Il naso, che aveva ospitato un olfatto inebriato da miele e datteri. Gli occhi… come si può chiedere a madri e a padri in lutto di pensare a quegli occhi ormai sfilacciati e consunti?
Pare così immorale che l’animo si rifiuta di concepirlo. Negli sguardi dei figli c’erano sistemi solari e galassie. Dopo, un non so che di caos infierisce su giornate, salute e affetti residui. Il tempo interiore si ferma a “quella” data. Lo spazio nel cuore è gelido Cocito.
Vexilla regis prodeunt inferni.
“Non sono solo, insieme a lui non sono uno, sono con lui in ogni mio intreccio, in ogni mio labirinto lui palpita in me, vive con me, è uno con me, sono con lui nell’immenso universo creatosi in me dopo la sua morte. Non riesco a ricordare lui, strano: lui, senza il suo non essere, non riesco a ricordarlo.
E lui è morto, quasi capisco il significato di questi suoni: mio figlio è morto, riconosco la verità di queste parole. È morto, è morto. Ma la sua morte, la sua morte non è morta”.