Se è vero quello che afferma George Bernard Shaw, e cioè che non smettiamo di giocare perché invecchiamo, ma invecchiamo perché smettiamo di giocare, allora Filosofia del Subbuteo di Paolo Dellachà (il melangolo, 126 pp. 10€) è, forse, prima di tutto un libro di salute – o di autoaiuto come va di moda dire – cosa che, se non altro, gli garantirebbe ottime vendite.
Ma il pamphlet con cui questo avvocato genovese dai molteplici talenti (è anche un pittore dilettante ma non troppo) indaga la storia e lo spirito del calcio da tavolo è qualcosa di più complesso e raffinato. Perché l’autore, piuttosto che fornire risposte sui grandi temi che ruotano attorno alla dimensione ludica dell’esistenza, preferisce investigarli con il merito di non scadere nella retorica né, tantomeno, nell’imperdonabile lamentazione nostalgica.
Con riflessioni mai banali, e citazioni che vanno da Javier Marìas a Michael Ende e Any Given Sunday, ed esercitando sempre l’arte preziosa del dubbio, nel parlare del Subbuteo l’autore affronta argomenti serissimi: le regole e l’opportunità, l’immaginazione e la mimesi, il rapporto con gli altri e quello con noi stessi, il dialogo tra le generazioni, l’orgoglio e l’amicizia.
nel parlare di subbuteo, l’autore affronta, Lo diciamo con comprensibile precauzione, la vita
Leggiamo a pagina 48: “E se tutti gli animali evoluti giocano, è lecito dire che si gioca perché si è vivi. Questa affermazione mi piace perché è ricchissima di significati; ciascuno può riconoscervi la sfumatura che sente più propria e restituisce quanto di ineffabile c’è nella domanda alla quale risponde. Purtroppo però ne presuppone un’altra, più difficile ancora: cosa è il gioco?”.
Partendo alla ricerca – forse, ma non necessariamente – della risposta fatidica, il libro non manca di descrivere con meticolosa precisione la storia del Subbuteo nelle sue diverse declinazioni e relative scuole di pensiero, dettagliando con (auto)ironia sottile le manie e le compulsioni dei collezionisti di calciatori in miniatura e di stadi ultra-particolareggiati.
Tra gli aneddoti raccontati c’è il giocatore sconfitto che con gesto purissimo di ribellione al destino – ma non al verdetto del campo – alla fine del match si mangia, letteralmente, il pallone. Oppure gli “affidabili dirigenti d’azienda che non possono fare a meno, quando segnano un goal, di emettere un suono gutturale a imitazione dell’urlo della folla festante”.
Oppure, ancora, la confessione dell’autore di aver sostanzialmente causato lo scioglimento di una storica lega di Subbuteo (“trentotto partite per ogni stagione, più le coppe e gli eventi speciali”) dopo aver scatenato una feroce polemica arbitrale.
Filosofia del Subbuteo è probabilmente destinato a diventare un testo fondamentale per gli “ossessionati” del calcio da tavolo ma rischia di appassionare anche chi conosca solo sommariamente l’argomento, perché è difficile non riconoscersi e ritrovarsi, in un modo o nell’altro, nelle dinamiche, a volte coinvolgenti a volte grottesche, della passione umana e dei suoi riti quotidiani.
Ci sono, sparsi tra i capitoli, anche sei interludi, sei racconti minimi con il panno verde sullo sfondo delle cose piccole e grandi della vita. Un modo per ricordarci che la filosofia del Subbuteo non è mera speculazione accademica ma piuttosto la cronaca della partita più incerta di tutte.