Il Novecento svelato nell’epistolario di Italo Svevo

Dicono quelli che la sanno lunga che per conoscere a fondo un autore, più ancora che le sue opere, andrebbero lette e studiate le sue lettere. Per questo c’è da gioire quando case editrici virtuose e curatori instancabili riescono nell’impresa – non sempre economicamente entusiasmante, purtroppo – di dare vita a nuove edizioni più aggiornate e complete di epistolari di grandi della nostra letteratura.

Curiosamente ne sono uscite due quasi in contemporanea in tempi recentissimi.

Sono – in ordine cronologico di autore – le lettere di Italo Svevo pubblicate da Il Saggiatore a cura di Simone Ticciati, e quelle di Pier Paolo Pasolini che Antonella Giordano e Nico Naldini hanno curato per Garzanti (di cui trovate qui la recensione).

Messe insieme, quasi tremila pagine che sono un concentrato di pensieri, dubbi, certezze, riflessioni personali e generali, considerazioni letterarie, immagini familiari, esaltazioni e delusioni, piaceri e dispiaceri, richieste e concessioni.

Insomma, tutto quello che le lettere ad amici, conoscenti e colleghi devono contenere. E che se non fosse per quella curiosa invenzione sempre meno considerata che è la carta, non sarebbero mai arrivate a noi (ma non è questo il luogo per aprire una discussione su ciò che resterà dei miliardi di mail sparsi nell’estere e probabilmente destinati a essere macerati nel cestino in basso a destra sui desktop).

L’epistolario del triestino Ettore Schmitz, meglio noto con lo pseudonimo Italo Svevo viene introdotto da un saggio di Federico Bertoni che traccia i confini, temporali e tematici, di questo corpus. Sono circa 44 anni di corrispondenze, dal 1885 al 1928.

Si va dalle prime lettere ai fratelli, a quelle alla moglie Livia, agli scambi con altri letterati del tempo, come Montale, Prezzolini, Comisso, Jahier e naturalmente Joyce (quattro delle lettere che compaiono qui erano finora inedite) e si arriva all’ultima, tenerissima, alla figlia Letizia, scritta il 1° settembre 1928, dodici giorni prima della sua morte e nella quale le parla del nipotino che era in vacanza con i nonni a Bormio e che chiude dicendo “Io non sto male ma – checché ne dica Paolo (il nipote, appunto, ndr) – neppure tanto bene...”.

Bertoni fa notare come ci sia una frattura netta nei contenuti delle lettere, “con una prevalenza di tematiche private, familiari e lavorative fino al 1924-1925, e di scambi letterari e culturali negli ultimi anni”.

Un corpo a sé formano le centinaia di lettere alla moglie Livia, quasi la sua corrispondente esclusiva nei decenni di silenzio autoriale che separano gli insuccessi e le delusioni dell’esordio Una Vita (1892) e Senilità (1898) dall’uscita di La coscienza di Zeno (1923), che improvvisamente lo rende celebre ovunque.

Italo Svevo

Così come emoziona seguire, lettera dopo lettera, la conoscenza e la nascita dell’amicizia tra Svevo ed Eugenio Montale. Un legame che arriva dopo una profonda delusione – l’ennesima, verrebbe da dire – per Svevo, che sul Corriere della Sera viene stroncato da Giorgio Caprin. L’articolo, intitolato Una proposta di celebrità esce l’11 febbraio 1926 e commenta con parole velenose la traduzione francese della Coscienza di Zeno.

Caprin definisce Svevo “questo disconosciuto romanziere triestino” e parla di “deficienza sostanziale di scrivere male” e di “fatale monotonia di una scomposizione senza limiti”. Con una chiusura al vetriolo: “Sarebbe ingiusto affermare che non ci sia nella letteratura italiana niente di meglio che la triturazione veristica di libri come questo”.

Svevo naturalmente ne è preoccupato, già vedeva la sua possibilità di fama internazionale e ora teme che tutto svanisca nel nulla come già successo. Lo scrive anche a Joyce il 15 febbraio 1926: “Ha visto l’articolo del Corriere della Sera di G. Caprin dell’undici corrente? Guai se continua così. Meno il furto mi rimprovera tutti gli altri delitti. Dio sa quello che penseranno Crémieux e Larbaud. E anche Lei vi figura, con rispetto, ma vi figura, povero Joyce!

Ma in soccorso di Zeno e della sua coscienza arriva appunto Montale. Il 17 febbraio 1926 Svevo gli scrive, chiamandolo “Pregiatissimo Signore” dopo gli articoli apparsi su L’Esame (nel novembre-dicembre 1925) e su Il Quindicinale (gennaio 1926), scusandosi per il ritardo con cui arriva a porgergli “una parola di ringraziamento” e poi continua con un lungo commento profondo e modesto del suo ultimo romanzo.

Dice: “Sento il bisogno di dirle che non credo che la differenza fra la Coscienza e i due romanzi precedenti debba ricercarsi nell’influenza di letteratura modernissima. Io ero molto ignorante di tale letteratura quando scrissi perché dopo l’insuccesso di Senilità io proprio mi interdissi la letteratura. Usai persino dell’accortezza per impedirmi di ricascarci: studiai il violino e gli dedicai per vent’anni tutto il tempo che avevo libero. Lessi molti romanzi italiani e dei francesi gli scrittori maggiori della mia epoca. So l’inglese ma non abbastanza per leggere facilmente l’Ulisse che sto leggendo lentamente ora con l’aiuto di un amico. In quanto a Proust, m’affrettai a conoscerlo quando l’anno scorso il Larbaud mi disse che leggendo Senilità (ch’egli come Lei predilige) si pensa a quello scrittore”.

E chiude così:

Il 27 di questo mese sarò a Milano per qualche ora e verrò a salutarla. Parto da Londra il 24 e mi fermo a Parigi per un giorno. Sarò ben lieto di stringerle la mano come faccio ora, figuratamente, ma di tutto cuore. Suo devotissimo, Ettore Schmitz”.

È una lettera che pone la prima pietra di una solida amicizia e stima reciproca tra due giganti del nostro Novecento.

(Qui la recensione del libro: Pasolini. Le lettere. Nuova edizione a cura di Antonella Giordano e Nico Naldini).