In ricordo di Francesco Nuti, “irregolare” del cinema italiano

Alle biglie del cortile sostituì presto le palline da biliardo, e quando il suo sguardo superò i casoni dei ferrovieri, i circoli e i teatrini off, nei suoi film parlò e tirò baci alla luna.

Che il cinema di Francesco Nuti, prima ancora di essere commedia, voce di provincia toscana e irrequietudine d’amore, segue una geometria ben precisa: “Nel biliardo ogni colpo è il risultato della scelta di infinite triangolazioni. Fra le triangolazioni del biliardo e le ‘angolazioni’ dell’inquadratura cinematografica non c’è differenza. Il regista, come un giocatore di biliardo, si muove intorno alla scena per scoprire dove piazzare il colpo”.

La semplicità dell’Italia artigiana, senza essere superficiale, di chi impara il mestiere guardando e non rincorre le lezioni della Holden. E l’immagine è solo un altro spazio, dopo il flipper e l’area di rigore, per continuare il gioco.

Se gli americani preferiscono i campi lunghi della prateria, Nuti formula metodo e stile sul verde dei tappeti da tavolo: “Il segreto del mio cinema è un poker d’assi: titolo, geometria, improvvisazione e silenzio” così scriveva nell’autobiografia, Sono un bravo ragazzo. Andata, caduta e ritorno (Rizzoli, 2011, pp. 206).

Non appena il film comincia a delinearsi con la scelta del titolo, il ritmo della sceneggiatura e delle sequenze delinea l’ossatura su cui poi divertirsi e improvvisare. Come un jazzista che conosce al dettaglio il suo standard, Nuti ama aggiungere o togliere corse sui treni (Stregati, 1986 – Io amo Andrea, 2000), picchiare Alessandro Haber in sedia a rotelle o bambini che lo minacciano con la pistola (Willy Signori e vengo da lontano, 1989 – Caruso Pascoski (di padre polacco), 1988), allargare le occhiaie o estendere il pallore di Novello Novelli.

E infine il silenzio, quello che lo sconvolge una notte, da ragazzo, in una casa di campagna dopo una Festa dell’Unità, così grande e assoluto da diventare una sceneggiatura scritta con Elvio Porta e una regia di Maurizio Ponzi: Madonna che silenzio c’è stasera (1982).

In realtà l’intera filmografia, da attore a regista, si muove sul linguaggio del corpo di Francesco Nuti, sia nei momenti comici che tragici: la reiterazione sempre più veloce dei gesti, la risata muta, disegnata dalla contrazione del viso – con la complicità della fossetta sul mento – la resistenza passiva a qualsiasi tentativo di violenza come nell’inizio in carcere di Tutta colpa del paradiso (1985).

Buster Keaton è il suo orizzonte, ispirazione e inconsapevole maestro. Lo guarda, ne studia tecnica, tempi e mosse, lo riproduce per imitazione, fino a trasformarlo nella sua espressione e nella sua sorte: “Ho sempre speso poche parole. Adesso il silenzio è il mio destino”.

Accanto all’interprete del cinema muto classico, due i suoi riferimenti cinematografici fin da ragazzo: Il monello di Chaplin e Lo spaccone con Paul Newman.

Se grazie al primo inizia a costruire “la poesia comica della solitudine”, il confronto con l’attore americano è il riconoscersi nella stessa ambizione, ma anche nel “desiderio di un riscatto, di una rivincita sul mondo, che tradisce i sogni più segreti”.

E Nuti alimenta con il proprio successo questa apparenza da spavaldo e sbruffone, dalle pellicole che dirige, alle grandi macchine che compra e alle donne che seduce nella vita.

A me Paul Newman mi fa una sega!” ripete ridendo a Giuliana De Sio in Io, Chiara e lo Scuro (1983), lo stesso film che esce a distanza di un giorno dall’altro vertice di nuova comicità, sempre con coprotagonista Giuliana De Sio, Scusate il ritardo, diretto dall’unico amico e regista di cui soffre la rivalità: Massimo Troisi.

Francesco Nuti con Giuliana De Sio

Molti i punti in comune tra i due autori: “donne mobili”, labilità non di sentimenti ma di relazioni, dimostrazione di estraneità al resto del mondo che li circonda, un’Italia conforme e sempre uguale, in un confronto di incapacità amorosa ricercata sempre negli specchi (Ricomincio da tre, 1981 – Madonna che silenzio c’è stasera, 1982).

Stima reciproca e confidenza interrotte dall’irruzione di una donna contesa, Clarissa Burt, che dopo aver partecipato a una festa in compagnia di entrambi, lascia Nuti per diventare compagna di Troisi.

L’epilogo tragico si risolve nel giugno del 1994: mentre il regista toscano sta conoscendo la fatica di concludere il suo OcchioPinocchio, film che romperà gli argini della depressione, una telefonata lo avverte della morte di Troisi che ha appena completato il doppiaggio de Il postino di Michael Radford.

Nell’ultimo saluto, vicino al letto dove riposa l’attore, Nuti gli lascia un bacio stampato sulla fronte e la sua ammissione: “T’ho invidiato tanto.

Ma mettendo da parte la competizione per donne, botteghino e premi, a Nuti interessa soprattutto il primato della notte. L’unico spazio riservato, nell’arco del giorno, in cui gli stralunati – come verrà sempre definito dai giornali – i pazzi, i diseredati e i delusi in amore hanno diritto a una vita che nasconda le proprie ombre.

È di notte da Genova che in veste di conduttore radiofonico ama parlare e raccontare in Stregati (1986) – titolo immeritatamente sottovalutato della sua filmografia -, che può essere investito e folgorato da incontri eccezionali come in Io amo Andrea (2000), ed è solo nel buio che ci si può confessare, amare e anche riconsegnare pitoni alle vicine di casa (Willy Signori e vengo da lontano, 1989).

Di notte ci si può godere il silenzio, la sospensione e il rapimento dei sensi e dei sentimenti, l’assenza di giudizio di chi si sveglia alle sette, l’anomalia che diventa quotidiano, senza diventare normalità, come nei racconti di Stefano Benni, tra zingari, sordomuti e giocatori, tutti personaggi della sua infanzia, tra Prato e Firenze.

Un silenzio che non è omertà né dimenticanza, come gli anni che l’hanno condannato al vuoto dopo il suo incidente domestico e la malattia nel 2006. “Il silenzio dei mondi del cinema, dell’editoria musicale e dei giornali“, scrive il fratello Giovanni, “che forse non si sono accorti davvero dell’autore che lui rappresenta, che sembrano averlo dimenticato – rimosso, come dicono alcuni – con una rapidità intollerabile”.

All’assenza di voci intorno – tranne gli amici di sempre, Giovanni Veronesi su tutti – si è opposto il coro del pubblico che in questi anni non l’ha mai messo all’angolo, ripetendo le sue battute, facendolo diventare dizionario degli irregolari, decalogo al banco salumeria tra prosciutti cotti fascisti e mortadelle comuniste, ultimo appello per ricevere bacini desiderati, collocazione utopica di Machu Picchu, serenate a fidanzate alte, belle e bionde, indicazioni stradali impossibili per bagni pubblici.

Uno schiamazzo di risate, freddure e urla che non si placherà nemmeno adesso che ha lasciato questo mondo incapace di leggere e accettare la comicità visionaria, che ha saputo mettere in guardia anche dai mostri del presente.

Orietta Berti è pazza”, scriveva sui muri del carcere, non sapendo ancora che i veri matti sono quelli che fuori, in libertà, ne ascoltano una hit per celebrare una nuova estate.