I sogni controllano i nostri desideri. Lo sanno bene le grandi Major dell’Urbe, ditte che producono sogni sintetici e che sono diventate le padrone del mondo distopico immaginato da Luca Botturi, nel suo secondo romanzo uscito a maggio 2023, Bootleg | Non autorizzato, la continuazione della Trilogia dell’Urbe iniziata con Outlier | Anomali (già recensito su Tortuga).
“Nessuno lo aveva previsto, ma la standardizzazione aveva in pratica anestetizzato la materia stessa di cui erano fatti i desideri” si legge nelle prime pagine. La storia riprende 20 anni dopo i fatti di Outlier, dove si narra il controllo esercitato dal Dipartimento del Benessere Sociale sulla megalopoli del futuro, l’Urbe, in cui si mangia cibo sintetico e si apprendono informazioni su chi si incontra su un retinovisore integrato nel bulbo oculare.
Eppure in questo scenario fantascientifico i desideri umani non si danno per vinti, la ribellione si fa strada tra coloro che sono costretti a vivere sottoterra, i cuori di alcune persone non si anestetizzano con i trend, rendendoli degli outlier, anomalie da eliminare.
Se nel primo romanzo il protagonista è Andres Santiago, giovane impiegato del DBS, in Bootleg è l’ispettore Zacharias Ryder ad accompagnare il lettore alla scoperta del traffico di sogni assassini.
Un bel problema per le Major, che vedono calare i loro profitti perché le persone, per paura dei sogni assassini, scelgono di sognare vecchi sogni, riducendo così il profitto delle Major.
Toccherà all’ispettore Ryder scoprire da dove proviene il traffico di bootleg, i sogni non autorizzati, in un avventuroso viaggio al di fuori dei territori dell’Urbe, fino a un misterioso villaggio nel cuore del deserto…
Ci svela qualcosa in più sul mondo dell’onirotecnica e sulle chiavi di lettura di questo romanzo, consigliato anche per i ragazzi, l’autore Luca Botturi, che vive a Lugano con moglie e sei figli ed è docente alla SUPSI, la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana.
Bootleg è il secondo libro di una trilogia che rappresenta il suo esordio letterario. Lei si occupa di media e tecnologia nella scuola. Perché ha deciso di scrivere un romanzo?
Per due motivi. Il primo è che mi offre un modo diverso rispetto alla ricerca per esplorare i temi di cui mi occupo in università e nell’insegnamento. Il secondo è che il romanzo diventa uno strumento di dialogo coi giovani, apre le porte alla discussione. Il macro tema che mi interessa affrontare è come reagiamo in quanto persone in un mondo tecnologico. La ricerca mette a fuoco dei francobolli di realtà, se pur estremamente nitidi; genitori e ragazzi invece hanno bisogno invece di vedere l’intero scenario.
Con il personaggio di Zacharias la storia diventa sempre più avvincente. Com’è nata l’idea del traffico di sogni proibiti?
L’idea del traffico di sogni proibiti è nata discutendo del primo romanzo, Outlier. Avevo in mente il seguito del primo libro, ma non la tecnologia che ci avrei messo. La sfida era questa: in un mondo dominato dai trend, con che criterio decidi quello che ti va bene? I nostri desideri come prendono forma? La tecnologia che ho immaginato per parlarne è l’onirotecnica, che crea sogni artificiali. E poi ci sono i bootleg, i sogni non autorizzati, talmente vividi e intensi che le persone muoiono: il loro cuore non regge. Perché noi non ci permettiamo più di sognare cose belle che ci sembrano troppo grandi, quindi sogniamo cose piccole. Ci diamo obiettivi minimi e pensiamo che sia giusto così. Ad esempio pensiamo che sia meglio avere un impiego stabile piuttosto che cercare di rendere il mondo un posto migliore tramite il nostro lavoro.
I personaggi sono sfaccettati, non ci sono solo buoni o cattivi. Bintah ha davvero a cuore il bene comune eppure è a capo del sistema che controlla la felicità delle persone. L’ispettore Ryder vuole salvare il villaggio, ma si comporta come un assassino.
Queste caratteristiche sono emerse mentre scrivevo. Le persone che desiderano il male per il male nella mia esperienza sono un’eccezione, mentre più spesso chi compie azioni sbagliate lo fa cercando comunque di fare qualcosa di positivo, magari in maniera confusa. Per Bintah il bene è l’ordine, per l’ispettore Ryder compiere il bene vuol dire portare a termine la sua missione.
Se nel primo libro Outlier l’ambientazione dell’Urbe è quasi opprimente, in Bootleg compaiono i colori, si scoprono le pietanze e gli odori, il deserto è in realtà prospero. Ci può raccontare cosa ha ispirato la creazione di questo mondo distopico?
Il deserto di Heidr e il villaggio di Aqitaf li ho plasmati grazie alle mie esperienze di viaggio in Africa. I nomi dei personaggi li ho presi dalla lingua Twi, una delle lingue parlate in Ghana. Ci sono stato tre volte, prima per fare visita a degli amici, e poi perché ho partecipato a un progetto di cooperazione internazionale. Il deserto che ho descritto appare disordinato a chi arriva dall’Urbe, che è il regno dell’ordine assoluto; ma è vivo, c’è un mercato con frutta e verdura fresca che gli abitanti coltivano. Per il paesaggio dell’Urbe invece mi sono ispirato alla mia esperienza come consulente e uditore di un gruppo di lavoro di ingegneri ambientali. L’Urbe assomiglia a un tipo di città sostenibile emersa durante quelle discussioni. Con un sopra, dove rimangono le abitazioni e il divertimento, e un sotto, dove sono situate le infrastrutture. Che andrebbero automatizzate per non costringere una parte della popolazione a vivere sempre sotto come, invece, accade nel romanzo.
La trilogia dell’Urbe è un romanzo di fantascienza che parla della ricerca della felicità e della libertà. Cosa possiamo imparare oggi per non ritrovarci un domani controllati dalla tecnologia come accade nel suo romanzo?
Se sapessi la risposta non scriverei romanzi. Mi sta più a cuore questo tema: come pensiamo la tecnologia in relazione alla nostra libertà e alla nostra umanità. Non stiamo creando solo accessori: il progresso tecnologico ha a che fare con un livello più profondo. Perché, in realtà, diventiamo in qualche modo le tecnologie che usiamo, come insegnano Ong e McLuhan. Le tecnologie cambiano il nostro modo di percepire spazio, tempo e relazioni. Bisogna fare attenzione a non perdere le cose essenziali. Ad esempio, se uso sempre il navigatore perdo la capacità di orientarmi. In altri casi, perdo, o posso perdere, pezzi di libertà. In Bootleg le persone lasciano colonizzare il proprio immaginario fino a sognare sogni che non gli appartengono, sintetici. Se una persona perde il contatto con i suoi veri desideri, la sua umanità ne soffre. Sognare i sogni di altri è un rischio diffuso già oggi tra i giovani, che hanno il problema di apparire come gli influencer che seguono. È come se avessimo sempre l’immagine di come dovremmo essere e non di come siamo. Se alle scuole medie chiediamo: “Che cosa vuoi fare da grande?”, ci sono due risposte standard: calciatore e influencer. In parte è normale, in parte rivela il fatto che nessuno riflette sui propri talenti, su cosa ama fare davvero, e preferisce accomodarsi su modelli preconfezionati. Questa omologazione dei desideri c’è sempre stata, ma adesso arriva con una forza senza precedenti.
Il protagonista di Bootleg usa spesso l’intelligenza artificiale predittiva, anticipando le mosse di chi gli accanto. Cosa ne pensa dell’AI e del suo uso nella nostra quotidianità?
Ho scritto Bootleg prima di ChatGPT (ride). Quello che mi interessava del personaggio di Zacharias è che lui pensa sempre avanti, mai all’adesso, è sempre proiettato nel futuro. Le proiezioni che facciamo sono sempre approssimative, ma hanno un effetto: ti spostano il baricentro spostato in avanti e questo ti impedisce di vedere con chiarezza quello che hai intorno nel presente. Quando i sistemi sonoo “intelligenti”, questo rischio si moltiplica: ci affidiamo a un modello calcolato da una macchina, e non vediamo più quello che abbiamo davanti, spegniamo l’intuito. Ci facciamo suggerire la situazione, ma non la viviamo.
Outlier e Bootleg sono consigliati come libri per ragazzi a partire dalle scuole medie. Dove vuole accompagnare gli adolescenti?
Non voglio accompagnarli da qualche parte, se non a riflettere sulla loro esperienza tecnologica e digitale. Mi sono reso conto che attraverso questi personaggi i ragazzi si mettono in discussione, si fanno un sacco di domande. Si sentono più outlier o trend? Quali sono i papaveri (segni di speranza) che compaiono nella nostra vita? Esiste un villaggio come Aqitaf? I romanzi aiutano a riflettere.
Si identifica con uno dei suoi personaggi? Anche se in un mondo distopico, c’è qualcosa di autobiografico?
La risposta è no! Non sono molto introspettivo… Sicuramente ci sono tratti dei miei personaggi che mi appartengono, ma non mi interessa raccontarmi. Scrivo per conoscere il mondo e il nostro rapporto con le tecnologie.
La sua scrittura ha tratti cinematografici, se la trilogia dell’Urbe diventasse un film agli sceneggiatori rimarrebbe ben poco lavoro… Ha scritto i libri pensandoli già in versione film?
No, perché non sono cosi ambizioso, anche se mi piacerebbe. Arrivo dal mondo dei media, e ho imparato a scrivere seguendo corsi di sceneggiatura, per questo uso un linguaggio che appartiene più al cinema e meno alla letteratura classica. Nei miei libr l’azione prevale sull’introspezione.
Quando uscirà l’ultimo libro della trilogia?
L’obiettivo è che l’ultimo capitolo della trilogia esca a primavera 2024, tra un anno. Lo sto già scrivendo. Posso anticipare che sarà un romanzo più corale, con più personaggi, ci sarà tanta azione e un nuovo scenario tecnologico.