Così è successo, e in tanti hanno stentato a crederlo fino all’ultimo, che Michael Stipe, già frontman dei REM, indimenticabile band americana che ha dominato la scena dagli anni Ottanta al Duemiladieci, abbia scelto l’Italia, e Milano in particolare, per presentare al mondo, per la prima volta, la sua arte.
Artista poliedrico
Michael Stipe, 64 anni a gennaio, è in realtà artista poliedrico da sempre. Ha studiato arte al college prima di fondare il gruppo con cui ha rivoluzionato la scena del rock alternativo mondiale.
Con un’infanzia vagabonda, a seguito del lavoro del padre che era nell’esercito, Stipe si è formato ad Athens, in Georgia, dove ancora risiede. Da qui con i REM a metà degli anni Ottanta ha cominciato a fare musica, una parabola che lo ha portato a concepire capolavori assoluti come Losing my religion o E-bow the letter. In tutti questi anni Stipe non ha mai abbandonato però la passione per l’arte e per la fotografia, coltivata fin da ragazzino.
L’arte come emozione
“Mi sento un artista visivo, più che un cantante. Di certo, l’arte e la musica si nutrono entrambe di emozioni e così per me concepire questa prima mostra personale è stato come ricevere una scarica di adrenalina prima di un grosso concerto“, ha detto nei giorni scorsi ai giornalisti richiamati a Milano per la sua personale.
Non ha parlato di musica né di album in arrivo (ma sappiamo che ne ha in cantiere uno, da solista, per il 2024). Si è concentrato invece sulla lunga gestazione che ha portato a questo progetto espositivo, scaturito dal desiderio, dopo tanti anni, di mostrare agli altri la sua “arte nascosta”.
La scelta peculiare di Fondazione ICA
Per vedere i lavori artistici di Stipe bisogna recarsi verso un indirizzo che è fuori dai canonici tour d’arte di Milano: siamo nella zona Scalo Porta Romana, non troppo lontano da Fondazione Prada, dove è stata creata Fondazione ICA, una realtà no profit, aperta a tutti e gratuita, che promuove progetti di arte contemporanea dal sapore innovativo.
La direzione di Alberto Salvadori, che da anni conosce Stipe, ha reso possibile questa prima assoluta che ha lasciato sorpresi i vecchi fan di Michael Stipe. Non tutti, infatti, avevano capito quando la pratica artistica (i video cinematografici, le foto, la scultura) fosse parte della sua esistenza.
Il titolo scelto da Michael Stipe per questo suo debutto è lungo: I have lost and I have been lost but for now I’m flying high (ho perso e mi sono perso ma per ora volo in alto), un titolo preso da una poesia, Desiderata, di Max Ehrmann, composta alla fine degli anni Venti e molto popolare quando l’artista era adolescente e “outsider”.
Fare arte “vulnerabile”
Fino al 16 marzo possiamo immergerci negli spazi di ICA dentro l’immaginario di Stipe che qui si concentra, per un totale di 120 opere tra scatti fotografici, oggetti, installazioni, sculture e vasi, sul tema del ritratto e della vulnerabilità.
“Stiamo attraversando un momento storico difficile, ma resto un ottimista. Mi pare che ciascuno di noi cerchi qualcosa di positivo, all’avanguardia, che parli di speranza. In mostra volevo presentare qualcosa così, qualcosa di edificante. Mi sento un artista pop, nel senso di inclusivo e comprensibile a tutte le persone“, ci ha detto. Sul tema della vulnerabilità ha aggiunto che per lui, un uomo queer da 40 anni, quando dichiararlo non era così comune come oggi, “la vulnerabilità è una cosa potente, penso sia il mio superpotere”.
In mostra osserviamo scatti di persone care a Stipe come la madre, la sorella, la nipote, il compagno, amici e artisti della sua cerchia, e anche oggetti dedicati a persone speciali (come un vaso che porta il nome di Sinead O’Connor).
E se nello stretto corridoio della mostra l’infilata di scatti in bianco e nero ci mostra tutta l’empatia verso gli altri di cui Michael Stipe è capace, nelle sale al primo piano le grandi installazioni colorate ricordano certa arte povera o concettuale.
È lo stesso Stipe a confermare che i suoi tre modelli di riferimento sono gli artisti Costantin Brancusi, capace di portare tutta la modernità nella scultura, Marisa Merz con la sua Arte Povera, e Bruce Nauman per il rigore delle composizioni.
Il risultato dei suoi lavori ci ricorda certe vecchie canzoni dei REM: originali, complesse, seduttive.
(E se qualcuno si domandasse se esiste una colonna sonora della mostra, sappia che no, non c’è alcuna musica, ma dentro le sale riecheggia la voce di Michael Stipe che legge i versi di Desiderata…).