Giovanni Pico della Mirandola, scomparso nel 1494 non ancora trentaduenne, è noto ai più per la sua prodigiosa memoria. Non poche testimonianze sostengono che sapesse ripetere senza il minimo aiuto tutta la Divina Commedia, qualcuno aggiunge che era in grado di farlo anche recitando il sommo poema di Dante in senso contrario.
Di certo possiamo dire che nella biografia scritta da Gianfrancesco, nipote a lui caro, in cui si enumerano tutte le sue virtù, di memoria non si parla.
È lecito, però, credere a un’epistola che il medesimo Giovanni Pico scrisse a Marsilio Ficino, che così comincia: “Spero di potere al più presto di leggere Maometto che parla nella propria lingua”. Poi precisa: “Dopo aver studiato per un intero mese la lingua ebraica, mi sono dato allo studio di quella arabica e di quella caldaica, e sono certo di fare in esse lo stesso progresso che ho fatto in quella ebraica, in cui sono già in grado – senza lode, ma senza colpa – di dettare una lettera”.
Di lui si torna a parlare grazie a una nuova edizione del discorso su La dignità dell’uomo (Einaudi, pp. 186, euro 22). La cura si deve a Raphael Ebgi, autore del notevole saggio introduttivo, la traduzione è di Francesco Padovani e il libro ha il testo latino a fronte.
Lo scritto è del 1486 e il ventitreenne Giovanni Pico lo concepì senza un titolo, come introduzione a 900 tesi (in originale Conclusiones) nelle quali compendiò tutto il sapere.
Intendeva riunire a Roma, a sue spese, un convegno di dotti che avrebbe discusso le varie teorie filosofiche e religiose da lui proposte. Purtroppo il fascinoso progetto fallì, l’incontro non ebbe luogo e opera e autore furono accusati di eresia dalla Chiesa.
Pico rispose con un’Apologia ma fu costretto, anche se per breve tempo, a restare in prigione in Francia, dove era fuggito.
La denominazione di Orazione sulla dignità dell’uomo arrivò postuma con l’edizione di Strasburgo del 1504, e da allora si mantenne, anche se poi fu in sostanza dimenticata.
Ebgi ricorda che si riscoprì tra ‘800 e ‘900. E che questo elogio dell’intelligenza umana e delle sue possibilità rappresenta la parte più alta della sensibilità del mondo umanistico e rinascimentale.
Negli anni in cui Pico stendeva la sua orazione, nota ancora Ebgi, un giovane Leonardo da Vinci “appuntava pensieri di analogo tenore”.
Del resto, Pico asserisce che l’uomo è un grande miracolo e un essere vivente da ammirare, da anteporre addirittura alle creature celesti. Apparve per ultimo perché potesse guardare e ammirare l’opera divina.
Non è predeterminato nella sua natura e ha la possibilità di decidere di se stesso, libero di scegliere, di abbandonarsi agli istinti, di innalzarsi sino alla somiglianza con Dio.
Insomma, il giovane signore della Mirandola tratteggiava un essere che era il contrario di quello che appariva in alcune concezioni medievali, dove abnegazione e rinuncia avevano gran parte. Una creatura che scopriva l’infinito attraverso lo slancio dell’intelligenza e con essa esaltava la sua natura.
Si tratta di un testo che merita di essere riletto dall’uomo di oggi, la cui dignità è messa a prova da una nuova epidemia e, nello stesso tempo, la creatura speciale sta vivendo il più grande cambiamento conosciuto nella storia dei mezzi di comunicazione.
Internet è più sconvolgente di Gutenberg, l’universo digitale sta mutando non solo la cultura ma il lavoro e la sensibilità stessa.
Pico può ancora ripetere che “siamo nati in una condizione tale, per cui siamo ciò che vogliamo essere”?