L’Ultimo canto di Saffo e un incontro impossibile

Questa poesia parla di bruttezza fisica. Di un corpo sgraziato e insultato dal mondo e da chi lo abita. Parla di un amore impossibile e infelice, perché l’oggetto del tuo sentimento nemmeno sa che esisti.

Questa poesia racconta di come la vita a volte sia beffarda e feroce e di come le virtù praticate non interessino a nessuno. A volte addirittura irritano, perché sottolineano le mancanze altrui.

Insomma, l’Ultimo canto di Saffo, composto da Leopardi in una settimana nel maggio 1822, affronta il tema del suicidio, che per la poetessa greca vissuta tra il VII e il VI secolo a.C. non rappresenta solo una risposta estrema al rifiuto erotico da parte di Faone, giovane bellissimo e inconsapevole, bensì una sfida alla Natura, non ancora dispettosa e matrigna ma, forse anche peggio, indifferente agli umani che le pongono vane domande.

Il recanatese asseconda una leggenda su Saffo: non sappiamo nulla della sua fine né tantomeno di un suicidio gettandosi dall’alto di un’isola del mar Ionio.

La figura della poetessa, alterata dal mito e dai pregiudizi verso un’intellettuale geniale e indipendente cresciuta in un contesto patriarcale, è storica e di lei purtroppo restano solo frammenti ma dal potere di mille spade: sono parole senza tempo, che fecero dire ad Alceo di Mitilene, che ebbe il privilegio di conoscerla, che era “dolce-ridente e coronata di viole”. La voce dell’arcobaleno. Un’implacabile fiera.

E così mi piace immaginare che, nel momento in cui il piede sottile della poetessa sceglie il vuoto e scivola fuori dal dirupo, che sia accaduto o meno, il marchigiano solitario e innamorato della libertà interiore le fosse accanto.

Senza giudicare. Senza trattenerla. Stringendole la mano mentre la donna correva incontro – leggera, finalmente! – alla “tenaria Diva” che per tutti e sempre avrà uno sguardo. E un abbraccio in cui riposare.

 


 

Il favoloso Giacomo le era accanto, tra le pietre bruciate e gli sterpi della rupe: era quella che gli avi chiamavano l’ora incerta tra il cane e il lupo, non più luce meridiana ma nemmeno atra notte.

Insieme, avrebbero atteso l’alba. Il conte e la nobildonna generata da Scamandronimo, sorella del coppiere nel Pritaneo. Due àristoi da parole avvinti e da passione turbati: la potenza della divinità si manifesta negli animi colpiti dal dolore del distacco e sconquassati da epifanie di bellezza. Bellezza, amore, altre parole fra mille, in fondo. Servirono mai, davvero?

In dialetto eolico celebrare dimenticati culti, epigrammi come preziosi castoni in cui sigillare l’eros e la carne, giambi scatenati per irridere alla morte. Che vince sempre, poi. Tutto rapina e preda, lei vecchia sguaiata e laida, svuota calma la clessidra e la sabbia del tempo si disperde. Giù per le ripe, lungo le foibe di scogli gettati in mare nostrum.

Faone dall’alto pareva lo spirito stesso della vegetazione, colori esplosi e rosso profumo di melograni. Natura in lui, tutto natura madre e matrigna e strega anguicrinita. In cosa ti offesi, incarognita madre? Perché niente doni intorno alla culla regale dove lustri fa Cleis mi depose?

Giacomo triste la guardava senza parere, ne indovinava i pensieri. Così ti si era mostrato la prima volta, vero? Non sapevi, quel mattino – troppo sole, miraggi al Pireo, un’alba più pigra del consueto – che doni Moira ti avrebbe recato. Li attendevi senza timori, senile fanciulla con fili bianchi nella chioma. Esclusa una volta dai giochi, esclusa sempre. Il poeta sapeva e guardava, fissava e memorava ma non poteva avvertirti: era di là dal tempo, dietro una siepe o affacciato dai veroni sulla piazza. Covato ancora dietro la fronte di Atena.

Il giovane recanatese era polvere di stelle eppure a te accanto, fra le ginestre secche della roccia di Leucade. In attesa. Tu, di principi stirpe, di Alceo sodale ed esule nella terra dei limoni, avevi fatto un sogno. Un tiaso senza ciclopiche mura a difenderlo, come a Creta durante l’aurea talassocrazia. Un portico di luci e di ombre dove Anattoria pigra passeggia e Attis pota le rose. I meli in fiore inducono al pianto quando Latona sorge nel cavo cielo. All’alba mangeremo cedri e miele, berremo vino speziato e ci cospargeremo di mirra le bianche braccia, in attesa del racconto.

Saffo inizia piano, poi il tono cresce e le fanciulle cattura, a chiusi occhi invoca Afrodite e canta le nozze di Ettore e Andromaca, gioielli scintillanti portati in dono e un talamo nascosto ad attenderli. Che amore, quell’amore. Che desiderio, come la parola stessa sussurra. De sideribus, lontani dalle stelle a cui tutti tendiamo.

È sempre un viaggio al termine della notte, la strana e agra vita che percorriamo cercando degli astri la luce, scrutando il percorso. Declama e narra e ride la maestra, in cuor suo ferita dalle prossime nozze dell’amata discepola. Attis destinata alla Lidia, Attis che cura il roseto e con esso si confonde. Cosa faremo, amica dal seno di viola, quando partirai per la terra di sabbia rossa e fuochi fatui? Non è troppo lontana la Lidia, ma alla mia lingua inceppata e al sudore di membra sconvolte sembrano multiversi, ora. Parleremo di te intorno al braciere e leveremo crateri dorati, dissimulando il pianto.

La matura poetessa sente scendere la notte ma nessun mantello le cinge le spalle. Il giovane presto incanutito vorrebbe carezzarla ma il pudore lo trattiene: guarda con lei il mare intorno allo scoglio, lontana verso oriente si intuisce l’isola del feroce giudice che cinque secoli prima esigeva quattordici figli di acropoli, anno dopo anno.

Quattordici pasti dovuti all’ibrido ignaro – che colpe, Erinni, sapeva o scontava? – di morfè contorta e appetiti mai paghi: vergini e pueri, tendini e occhi grandi. Labirinto per chi non chiese la nascita, prodigio buttato sulla scena dell’isola senza difese. Solo procelle, mosaici dorati e vendette da compiere.

Dalla terra del Minotauro fuggì Fedra, vergognosa delle schegge di sesso umide in cui l’imbestiata madre si adagiò. Smodata e di lacrime e seme attraversata. Da natura contraria, infine, posseduta. Sapevi e temevi, Fedra – questo pensò la poetessa di Mitilene – dell’eros il flagello. E Faone, come Ippolito fu prima e dopo e sempre, mi è entrato nei lombi. Non avevo riparo quel mattino. Schiena forte e braccia che suggerivano strette violente. Dolci, dunque. Amplessi che meglio, davvero, sarebbe stato spegnersi in testa. Ma il ragazzo, incurante e fiero, di quale disprezzo si ammantava? O fu solo sovrana e incolpevole indifferenza?

Ippolito era tutto pietas, tutto selve sempre troppo oscure e are ancora calde di sangue. Valeva l’olocausto? Valeva negare, negarsi gli abbracci e le catene che quelle indomite spalle promettevano? O giovane favoloso da lungi venuto, non al consacrato figlio di Teseo bensì ai pie’ veloci dello scherzoso garzoncello Faone avrei stretto le avvizzite braccia. Sconci e osceni propositi, ludi inconfessabili.

Avrei adagiato sangue e pelle e dita e collo e chioma sul nudo torso di giovane che gli dèi e il tempo e lo spazio sfida. E oscena, sì!, fuori dalla scena del palazzo avrei consumata la brama che non si può dire. Era contro matrigna natura il mio tuo nostro peccato? Era colpa? Solo desiderio muliebre smodato. Senza età. Privo di apparati e dei riti di sacerdoti. Solo uno sfatto talamo come testimone. Furore erotico di una donna che già chiamano le Parche. Desiderio di una donna. Anziana e stortignaccola. Ecco lo scandalo da negare omertosi. La parola da seppellire. Culpa gravis, triste figlia del Dodecanneso. La ferita oscena.

Era tempo, ormai. Mano nella mano, occhi negli occhi, il vate e la poetessa stanca si gettarono in volo. E insieme caddero fuori dal tempo. A riveder le stelle.