Manfredi: la sospensione dei fuori posto

Una delle cose che mi fanno capire di non essere intelligente come credo è il fatto di aver dovuto aspettare il centenario della nascita di Manfredi per capire esattamente cosa lo differenziava dagli altri attori, e in particolare dagli altri cosiddetti “colonnelli” (Tognazzi, Sordi, Gassman, Mastroianni) della commedia all’italiana. Di tutti, Manfredi è sempre sembrato, e certamente lo è stato, il meno straripante, il meno mattatore: perché aveva, a differenza degli altri, una sua cifra precisa, che portava in tutte le sue interpretazioni. Il più attore, nel vero senso del termine, era Gassman: pur rimanendo Gassman – imperioso e imponente – era quello che più facilmente si adattava al ruolo. Tognazzi aveva la sua talentuosa lascivia, che te lo faceva sempre immaginare con le mani inzaccherate di salama da sugo, Mastroianni era sornione e innamorato, e Sordi, beh, era sempre e comunque Sordi. Anche Manfredi era sempre e comunque lui, ma in un modo completamente diverso dagli altri: aveva una sua fedeltà, alla sospensione, che non abbandonava mai.  

Manfredi era anche lui bravissimo, (Dino Risi) lo considerava però troppo metodico, lo aveva soprannominato “l’orologiaio svizzero”, capace di svegliarlo alle tre di notte per una battuta del copione che non lo convinceva. (Marco Risi, Forte respiro rapido. La mia vita con Dino Risi)

Fateci caso. Manfredi non risponde mai direttamente a una battuta: c’è sempre un attimo, un attimo appena, di sospensione, come di fuori sincrono. Ogni volta, è come se non avesse capito quello che gli sta dicendo il suo interlocutore e avesse bisogno di un momento per elaborarlo mentalmente.

C’è una scena in Anni ruggenti (Luigi Zampa, 1962) in cui si capisce bene: Manfredi interpreta l’assicuratore Omero Battifiori, che viene scambiato per un gerarca fascista in incognito. A un certo punto gli raccontano una barzelletta su Mussolini, e lui fa quella cosa lì, della sospensione: alza un attimo gli occhi al cielo, come a riflettere, e poi se ne esce con un «e già», e ride.

Ora, in quella scena la sospensione è addirittura necessaria: lui non è un gerarca, ma è comunque fascista, e gli ci vuole un secondo per elaborare una battutaccia inattesa sul Duce.

C’è sempre, nella sua recitazione, quel secondo in cui appare fuori sincrono (o un po’ stordito, fate voi), in cui si raccoglie in sé stesso e poi esplode, magari in silenzio, come quando il suo Cornacchia-Pasquino guarda in tralice il cardinale Rivarola-Tognazzi (Gigi Magni, Nell’anno del Signore, 1969), e ha già capito che il prete sta per minacciarlo. Quella scena è tutta negli occhi di Manfredi. O anche la scena in cui chiede a Giuditta (Claudia Cardinale) dove sia il dottor Montanari:

– Ma che voi da Montanari?

– Non so’ cose da donne. (Sospensione) Allora? Vado?

– È annato a cospirà.

(Sospensione) Si, questo nun ce lo sa nessuno, ma indove? (Sospensione) Sta in pericolo, qualcuno bisogna che l’avverta.

Quelle di Manfredi non sono semplici pause: sono momenti in cui è come se avesse bisogno di rielaborare la realtà per capirla, e per farcela capire, meglio. I suoi personaggi sono sempre inadatti, sempre fuori posto, come il povero Piede Amaro dell’Audace colpo dei soliti ignoti (Nanni Loy, 1959), che è tutto una sospensione:

– Piede Amaro, te cercano!

(Sospensione) Chi è?

– Gentiluomini di passaggio.

Il Manfredi attore, grande attore, è lì. Ecco perché è anche e sempre il perfetto emigrante, in Pane e cioccolata (Brusati, 1974), Spaghetti house (Paradisi, 1982) e soprattutto nel Gaucho (Risi, 1964): perché quell’attimo di sospensione lo fa sembrare sempre leggermente sfasato, o più propriamente fuori posto ovunque, sempre in difficoltà nell’adattarsi al mondo, cosicché è sempre grande quando ritorna in sé, sia quando ne esce da perdente, come nei Complessi (Risi, 1965), e si rassegna a uscire con la bruttona dell’ufficio anziché con la bella ma complicata (oggi si direbbe tossica) Gabriella, sia quando, nei panni di monsignor Colombo (Magni, In nome del Papa Re, 1977) finge di non sentire («Eh? Scusate, ero sovrappensiero») il procuratore papale che gli chiede se sia favorevole alla condanna a morte degli Italiani, per poi prorompere in un meraviglioso atto d’accusa contro il papato urlando: «Giovanotti!» ai porporati ottuagenari.

E questa sua sospensione, questo suo meraviglioso essere un passo indietro rispetto a una realtà brutta e ingiusta trova la sua magnifica conclusione in C’eravamo tanto amati (Scola, 1974): Gassman e la Sandrelli, con la quale Manfredi è fidanzato, vanno in ospedale a dirgli che si amano e che si sono messi insieme, e che confidano nella sua comprensione. Manfredi si sente male, va in iperventilazione, lo sdraiano su una barella e se ne vanno via (loro e solo loro) felici. Manfredi resta sulla barella, in questo suo lungo momento di sospensione, con gli occhi che cercano di fare il punto sulla botta che ha appena preso: «Essi si dispiaceno. E io, eccome qua». Finché non capisce – e lì ti rendi conto che Scola ha capito la cifra attoriale di Manfredi, facendo della sospensione il punto di forza della scena- e rincorre l’ex amico e ormai ex amante, li raggiunge sotto una pioggia battente e comincia a menare Gassman che, da terra, gli urla: «Sono mortificato per te!»,e la Sandrelli, con la faccia, va detto, come il culo: «Ti credevo buono e generoso!»

E la meraviglia è che adesso Manfredi non sospende più, ha capito, è ormai in sincrono, e se ne esce con quello che è diventato il motto della mia generazione:

«E se semo stufati d’esse bboni e generosi!».