Perché i disaster movie non sono più quelli di una volta

Quando gli uomini appaiono distratti, spetta all’arte richiamare all’attenzione. In particolare al cinema, linguaggio universale, e più di recente alle serie tv, è stato assegnato il ruolo della didattica al disastro: dalle guerre alla politica, passando per pandemie, attentati e aerei caduti.

Dilatando i tempi narrativi in puntate e approfondimenti, che sia in forma documentaristica o fiction non importa, la serialità televisiva sviluppa e informa su temi di urgente attualità, soprattutto per i più giovani. E il pericolo nucleare occupa e preoccupa più di altri.

Così dopo la raccolta delle testimonianze della docu-serie Meltdown: l’incidente alla centrale di Three Mile Island (2022, Netflix), le ricostruzioni accurate in Chernobyl (2019, produzione HBO e Sky Atlantic), a gettare l’allerta sui rischi dell’energia e il potenziale punto di non ritorno legato alle radiazioni, è I tre giorni dopo la fine (2023, Netflix).

Una serie che senza pretese di spettacolarità, riducendo il romanzesco in favore della ricostruzione, affida nei dettagli al pubblico cronologie e conversazioni, competenze e imprevisti, per valutare la responsabilità degli eventi alla centrale nucleare di Fukushima nel 2011.

Se la giustizia dei tribunali soffre la natura umana e fallace, e il sistema d’informazione, fin troppo spesso, dimentica di non avere giurisdizione quando si tratta di sbattere il mostro in prima pagina, il cinema si offre volontario come raccoglitore di prove documentali, valutazione delle colpe, occhio imparziale che ricerca solo la verità.

Un giorno come tanti, in Giappone, in un ufficio amministrativo: pratiche di routine, aggiornamenti e chiacchiere tra colleghi, così banale nelle sue ripetizioni e senza affanni, che il direttore Yoshida chiede al collaboratore Kinoshita se hanno scelto una data per il picnic sotto i ciliegi, il rituale hanami, festa per osservare la fioritura primaverile degli alberi.

Simbolo di fragilità e bellezza, tradizione di speranza, ma anche presagio, tanto che osservando la scena viene da ripensare all’haiku del poeta Kobayashi Issa: “Mondo di sofferenza: eppure i ciliegi sono in fiore“.

Perché l’ordinario ufficio gestisce l’amministrazione della centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi e la data appartiene ormai alla storia recente del Giappone: 11 marzo 2011, il giorno del terremoto e dello tsunami del Tōhoku.

In pochi istanti la realtà si ribalta: scossa di magnitudo 9, onde dal mare di oltre dieci metri, blackout generale e interruzione dei sistemi di monitoraggio e raffreddamento dei reattori. Tutta la regia che rispondeva alla geometria precisa delle gerarchie, muovendosi con cura su lunghi carrelli orizzontali e rispettando il ritmo delle battute, pronta a proiettare il sistema valoriale del formalismo e le procedure rispettate in ogni ambito, viene completamente infranta dallo straripare dell’acqua.

La natura, la variabile pronta a scompaginare l’equilibrio, e a vanificare qualsiasi sforzo protocollare: nessuno aveva mai previsto nelle procedure di emergenza un blackout totale. E non servono effetti speciali ai registi Masaki Nishiura e Hideo Nakata per ricreare l’orrore e l’angoscia di ore e giorni di attesa, basta ossessivamente riprendere l’immagine degli ideogrammi ad ogni voce dei tabulati: sconosciuto. Nessun dato su temperatura e pressione, fuoriuscita e integrità: il destino di una nazione è affidato a un “aereo che vola alla cieca”.

È in questo sistema fuori uso, tra esperti della TEPCO (la più grande compagnia elettrica del Giappone e proprietaria dell’impianto) che non sanno rispondere al Primo Ministro, ricerca vana di prassi e ritardi che Masao Yoshida, direttore della centrale, risponde con l’improvvisazione: se l’acqua dolce non è sufficiente per raffreddare gli impianti, tanto vale provare con quella di mare.

Una decisione mai presa, una possibilità non calcolata, ma esattamente come l’ammaraggio sul fiume Hudson del capitano Sullenberger (Clint Eastwood ne ha fatto un film bellissimo, Sully, nel 2016), un azzardo compiuto con esperienza e ben ripagato: il fisico nucleare Michio Kaku, ammetterà che questa decisione, disobbedendo alla TEPCO e al Primo Ministro, ha evitato un disastro più grande.

La bellezza della disobbedienza di Yoshida – che non lo mette completamente al riparo dalle critiche – in netta opposizione alla subordinazione della cultura giapponese, ne esalta l’umanità e l’empatia in molti momenti: la richiesta, in piena emergenza nazionale, di recuperare i corpi dei due giovani elementi dell’unità, rimasti intrappolati durante lo tsunami, le sigarette che si consumano più velocemente del tempo a disposizione per risolvere la crisi, il lungo silenzio nella dichiarazione della selezione nel personale di una squadra suicida per azionare manualmente le valvole del reattore.

Ma soprattutto l’opposizione al Primo Ministro che vorrebbe l’operazione già avviata, quando occorre un tempo di preparazione ai propri uomini per entrare nell’edificio e prepararsi alla morte.

In tutte queste sequenze di emergenza, la regia non sottolinea mai con enfasi l’eroismo, anzi preferisce mantenersi neutrale, lasciando che il bilancio sia fatto dalla coscienza di chi guarda e segue la successione degli eventi. Anche perché il coraggio più grande è di chi materialmente decide di sacrificarsi per il bene della “vecchia nazione”. Come risponde l’addetto Furu al ringraziamento del direttore Yoshida: “Non serve, è solo il mio lavoro”. Poche e semplici parole che ricordano la stessa banalità del bene di Giorgio Perlasca, raccontata da Enrico Deaglio.

Come la storia del disastro di Fukushima si risolse, purtroppo, è noto: quattro esplosioni negli edifici dei reattori, fughe di idrogeno e contaminazione delle acque, specialmente nell’oceano, ma I tre giorni dopo la fine pone l’attenzione non solo sulla possibilità di poter evitare la catastrofe ma soprattutto sull’incapacità di poter predisporre un’evacuazione in tempi precisi, senza incertezze, le mancanze tecniche della dirigenza della TEPCO.

E infine la consapevolezza: affidarsi a un tipo di energia che per un evento naturale poteva rendere inabitabile un terzo del Giappone per decenni.

Una riflessione preoccupante, nei giorni in cui si susseguono le notizie dall’Ucraina, sul bombardamento della diga di Kakhovka, necessaria al raffreddamento degli impianti della centrale nucleare di Zaporizhzhia.

La situazione è sotto controllo, non ci sono danni e l’AIEA valuterà lo sviluppo degli eventi. Scampato pericolo, stavolta, ma l’ammonimento che parte dalle piattaforme Netflix e Sky, per passare su Chernobyl, Three Mile Island e Fukushima e arrivare nei salotti di tutti, è lo stesso: There Is No Planet B.