Ragazzi, vi va di vedere un cadavere?

Partite a carte, canditi alla ciliegia e una radio sempre accesa. Niente sembra interrompere la monotonia di un pomeriggio per quattro adolescenti dell’Oregon nell’estate del 1959, finché non arriva la proposta: “Ragazzi, vi va di vedere un cadavere?” E niente sarà più come prima.

Difficilmente un film ha saputo restare impresso nel tempo come Stand by me – Ricordo di un’estate (di Rob Reiner, 1986), tra le parodie de I Simpson e I Griffin, i tributi delle serie come Stranger Things, plasmando una nuova idea di rituale di passaggio e narrazione della giovinezza che sta per finire. Eppure il merito indiscusso della sua straordinarietà deve essere ricercata nell’origine e nel soggetto, in quel racconto di Stephen King da cui è tratto, Il corpo, dalla raccolta Stagioni diverse (1982, in Italia pubblicata da Sperling & Kupfer).

Se King è abile nello scolpire il bassorilievo della provincia americana, tenendo insieme la predestinazione di John Steinbeck e la ricerca psicologica di William Faulkner – una lezione di cui saprà raccogliere i frutti, con meno furore, Joe R. Lansdale – fondamentale per la breve architettura del racconto è la rapidità del tratto, il saper fotografare con un episodio e poche righe, ogni carattere dei suoi quattro protagonisti, come da insegnamento di Shirley Jackson.

È nella ripetizione petulante delle frasi che King ritrae Vern, nel ponderato paternalismo Chris, negli occhi da pazzo Teddy e nella volontà di sparire il giovane Gordie. Tutte assi portanti che Rob Reiner, da regista e con saggezza, decide di non scardinare, lavorando invece a un’osmosi continua tra parola e immagine, voce narrante e tessitura cronologica, accordanza tra linguaggio e movimento di ogni giovane attore.

Così abbandonano Castle Rock i quattro amici per cercare il cadavere di Ray Bower, un loro coetaneo. Un viaggio che vuole essere una missione, ma anche una breve vacanza prima dell’inizio della scuola superiore e, soprattutto, l’occasione per misurarsi, per la prima volta, con la morte.

Un’esperienza del tutto nuova, tranne che per Gordie, voce narrante e fratello dello scomparso Denny. Un’onniscienza che solo dall’incontro con il lutto e il dolore si può maturare. E non è un caso che sia proprio affidato all’attore Richard Dreyfuss il compito del narratore: se da biologo ne Lo squalo di Steven Spielberg si era calato negli abissi per dare la caccia all’animale assassino, ma soprattutto alla paura dell’uomo, in Stand by me, riattraversa e si rimmerge nel passato da Gordie adulto, per riportare in superficie quei pochi giorni trascorsi lontani da casa con gli amici, due soli giorni in cui sembra non succedere molto, se non crescere.

Un’escursione di “trenta, anche quaranta chilometri” che si trasforma rapidamente in un’Odissea: tra ostacoli e sanguisughe, soste forzate e scontri con i mostruosi rivali della banda Cobra di Ace “Asso” Merril, è la curiosità, la conoscenza dell’età adulta che spinge i quattro a continuare il cammino.

Una crescita realizzabile solo attraverso la vista del cadavere, e quindi un traguardo, quello della fine dell’infanzia, che si raggiunge esclusivamente con l’imparare a guardare, tanto che nel corpo di Ray Bower sembra di sentire l’eco lontana – e successiva –  di Jean-Luc Godard: “Saper vedere prima di saper leggere.

Se la giovinezza ingigantisce e non restituisce l’esatta misura del mondo che circonda i quattro ragazzi di Castle Rock, spaventati dalle storie sul cane da guardia Chopper per poi capire che si tratta solo di un esemplare di taglia media, ecco che l’età adulta si presenta con la giusta proporzione dello sguardo, come dirà lo stesso Gordie al ritorno a casa: “Eravamo stati via solo due giorni, eppure la città sembrava diversa, più piccola”.

E se il film di Rob Reiner sa restituire l’esatta dimensione del presente, allo stesso modo, in maniera inconsapevole, anticipa il futuro dei suoi protagonisti: un cupo presagio è l’uscita di scena di Chris Chambers, mentre la macchina da presa segue l’immagine di River Phoenix rimpicciolirsi, quasi dissolversi e Gordie adulto racconta la sua morte tragica e prematura. Un destino che personaggio e attore non sanno di condividere, anche se per motivi diversi, uscendo dal campo visivo dello spettatore per finire nel monitor della fine del racconto.

Stand by me è un’irripetibile vertigine di un cinema che non può esistere più, proprio perché è il ritratto di una generazione e di un mondo che conosceva ancora l’innocenza, e sapeva distinguerne la sua fine.

Ma è anche un film di sapiente scrittura, in apparenza semplice e facilmente emulabile, che nasconde sotto la superficie della storia adolescenziale infiniti piani di lettura. Una cronaca di amicizia e lotta con le proprie paure, forse perché lo stesso Stephen King aveva intuito che il vero terrore è non sapersi misurare con la realtà delle cose, la visione del futuro, e gli incubi del passato.

La vita, in poche parole.