Sergio Rapetti: alla scoperta dell’arcipelago Solženicyn

L’esilio dall’URSS di Solženicyn, nel 1974 dopo la pubblicazione di Arcipelago Gulag, la battaglia al fianco degli scrittori ed esponenti delle associazioni per i diritti civili in URSS, costretti all’emigrazione e spesso non accettati dalla «cattedra progressista» in Occidente, quindi il rapporto con il premio Nobel Svetlana Aleksievič di cui ha tradotto la maggior parte della pentalogia sull’«uomo rosso»: sono almeno tre avvenimenti, tre fili d’Arianna, che Sergio Rapetti, storico traduttore del dissenso russo, non può rinunciare a raccontare anche dopo l’intervista fiume che abbiamo pubblicato (e per cui gli siamo grati).

Allora ripartiamo da Zurigo. Dall’esilio di Solženicyn. Che so ritieni imprescindibile anche per il nostro tempo.

«Nel gennaio 1974, Solženicyn era stato arrestato immediatamente dopo la pubblicazione del primo volume dell’Arcipelago Gulag a Parigi, privato della cittadinanza e subito espulso dall’URSS. Di lì a pochi mesi, prima dell’estate, ho avuto occasione di incontrarlo e con lui la famiglia. In quei mesi del 1974, Solženicyn, prima di immergersi nelle ricerche e stesura dei capitoli dedicati a Lenin a Zurigo, si stava personalmente occupando della questione della pubblicazione delle sue opere in Occidente, potendole finalmente sottrarre a edizioni incontrollate. Riguardo all’edizione di suoi libri in Italia, Solženicyn, dopo avermi conosciuto, avrebbe chiesto al suo editore, Mondadori, presso il quale io già lavoravo come redattore, di volermi coinvolgere».

Al primo incontro con lui che impressione hai riportato?

«La prima sorpresa è stato il suo aspetto. Da foto perlopiù giovanili me l’ero immaginato meno alto e robusto di come ora lo vedevo. Una persona alla mano, gioviale e diretta, dal piglio energico e comunicativo. Sapevo già della sua strenua dedizione a un lavoro di letterato che considerava un impellente dovere nei confronti del proprio popolo e della sua storia e un contributo alla causa della guarigione morale e sociale della patria. E sapevo quanto per questo considerasse prezioso ogni minuto del proprio tempo. Così non mi sono affatto sorpreso di vedermi dedicare lo spazio, peraltro rilassato, di una prima colazione in famiglia. Così ho avuto l’occasione di conoscere da subito anche la moglie Natalija Dmitrievna e la madre di lei Ekaterina Ferdinandovna Svetlova, entrambe indispensabili collaboratrici dello scrittore».

Seppe conquistarti da subito?

«Ti racconto il più prezioso ricordo di quando mi sono accomiatato quel giorno: ho detto a Solženicyn che mia madre Irina era nata nella stessa cittadina, Kislovodsk nel Caucaso russo, dov’era nato lui; e Aleksandr Isaevič mi ha chiesto di trasmetterle i suoi devoti omaggi; la tradizionale espressione russa è più solenne e deferente: aveva indirizzato alla mia mamma un profondo inchino».

Al successo con i primi racconti pubblicati su Novyj Mir che lo rivelarono ai lettori in tutto il mondo è seguito il clamore mediatico attorno alle opere invece rifiutate e alle critiche di Solženicyn alle autorità politiche e culturali dell’URSS; questa circostanza non ha in generale relegato in secondo piano i meriti puramente letterari delle sue opere?

«Ciò che fa di Solženicyn un personaggio che trascende anche i propri meriti letterari, e lo rende unico tra i colleghi scrittori russi della seconda parte del XX secolo, è proprio l’impresa, fino allora impensabile per un uomo solo, che l’ha contrapposto all’onnipotente regime totalitario. La sua è stata una resistenza di letterato e cittadino: da letterato, contro l’asservimento anticostituzionale della letteratura alla censura ideologica, cui contribuisce proprio quell’Unione degli scrittori sovietici che i suoi membri dovrebbe invece difenderli, da cittadino con l’esortare in fervidi appelli i connazionali avviliti nella propria inerzia a reagire. E gli strumenti di questa liberazione da vincoli esterni imposti devono consistere, per lui, nel recupero di valori personali, interiori, non violenti: rifiuto del conformismo imposto e rifiuto di farsi complici in ogni circostanza della menzogna ufficiale, resa vincolante per ognuno con lo spauracchio di sanzioni d’ogni genere. E quando avrà l’ardire, da scrittore ormai di fama mondiale, ma cittadino ancora non espulso, di rivolgersi ai reggitori dello stato-partito sovietico, lo farà chiedendo, per il paese in catastrofica crisi e incerto avvenire misure che, rinunciando alle ambizioni imperiali e alle illusioni ideologiche realizzino la «salvaguardia del popolo» ripristinando il rispetto delle sue esigenze materiali e spirituali. Questi richiami al «vivere non secondo menzogna», favorendo così un «ritorno del respiro e della coscienza», a instaurare la libertà di espressione e creazione letteraria, e a mettere al primo posto il benessere del popolo sono al cuore di scritti memorabili».

Quindi non era più solo letteratura.

«Nel 1998 l’accademico Sergej Averincev condenserà in una lettera aperta augurale del 1998 la peculiare importanza dello scrittore fin dal sensazionale esordio con Una giornata di Ivan Denisovič: «Questa non è più storia della letteratura – è storia della Russia». Tra i commenti che accompagnarono i primi giorni della deportazione, nell’abbraccio fraterno del collega Heinrich Böll, ne ricordo sempre uno, della Deutsche Welle: «Solženicyn esorta al pentimento. Questo libro (l’Arcipelago) potrà diventare il libro principale della rinascita nazionale se al Cremlino sapranno leggerlo». E no, non hanno saputo o potuto leggerlo, tanto meno realmente pentirsene, e l’ex Unione Sovietica, impastoiata in un passato che non passa mai, ancora si dibatte alla ricerca di una propria identità e un vivibile futuro».

Nei due anni a Zurigo a cosa volle lavorare Solženicyn?

«Nella città elvetica s’era venuta componendo una narrazione che poteva essere autonoma e che sarebbe presto uscita in volume a Parigi col titolo Lenin a Zurigo. Il leader dei bolscevichi era vissuto esule in Svizzera dal 1914 e dal febbraio 1916 all’aprile 1917 proprio a Zurigo. E Solženicyn in vie, vicoli e locali della città vecchia, sul lungolago, sui sentieri immersi nella natura e soprattutto nella biblioteca centrale della città insegue quel personaggio, in esilio come lui, cercando di immedesimarsi nella sua psicologia, fanaticamente volitiva nel perseguire i propri fini. Il risultato è un efficace ritratto storico-romanzesco e onirico in 11 capitoli da collocare nel titanico affresco di La Ruota rossa, accanto ad altri protagonisti: il generale Samsonov, il primo ministro dello zar, Stolypin, Nicola II, e altri.

Nel suo Žurnal krasnogo kolesa, il diario del farsi dell’opera della sua vita, redatto dal 1960 al 1990 e finora inedito anche in russo, Solženicyn annota del corpo a corpo con Lenin, penetrandone pensieri, progetti e anche deliri, le iniziali difficoltà di dare anima letteraria e veridicità alla grande quantità dei materiali raccolti. Ma tra la fine del 1974 e gli inizi del 1975, lo soccorre l’ispirazione, nonché lo slancio per reperire i funzionali elementi reali e visionari per un’opera compiuta e al tempo stesso aperta: siamo solo agli inizi della vicenda che sconvolgerà l’intero secolo russo e mondiale. Ebbene, lo slancio creativo, a quel che ne scrive Solženicyn nel diario, torna a sostenerlo al cospetto di imponenti declivi e vallate di un paesaggio montano nel quale si è volontariamente isolato, a una trentina di chilometri dalla città. Cercherà sempre, nell’esilio americano e al ritorno in Russia nel 1994, ampie largure naturali dove lasciar vagare liberamente sguardo e penna, per poi magari tornare a chinarsi su un improvvisato ripiano di lavoro all’aria aperta».

Conserverà qualcosa dell’esperienza svizzera?

«Della Svizzera manterrà in particolare l’ammirazione per la struttura sociopolitica (dalla comunità cittadina o rurale, al cantone, al governo centrale). Vi ha ravvisato il principio della democrazia dei piccoli spazi che è alla base della sua proposta per la nuova Russia, quell’autogoverno locale in grado di sovrintendere alla gestione primaria di tutte le forme della vita sociale. L’unico rimedio, a suo parere, alla esiziale frammentazione, fonte di arbìtri e corruzione, del proprio sconfinato paese. E questo proporrà instancabilmente dopo il ritorno in Russia nel 1994, ai governanti e alle assemblee rappresentative, fino alla Duma centrale».

Ma può esistere un’attualità di Solženicyn oggi? Lo leggono in pochi.

«L’attualità di Solženicyn? Personalmente continuo a ritenere che il tema del Gulag – un sistema di lavoro schiavo, sterminio e detenzione – immanente e minaccioso per i propri sudditi grazie al quale il regime sovietico ha dominato nel xx secolo i popoli ad esso assoggettati, già un tale tema, dicevo, ritengo debba restare di scottante attualità; questo per più di un motivo».

Per una questione di memoria?

«Anzitutto perché il Gulag, inteso estensivamente ma anche per certe impressionanti analogie con consimili realtà dell’oggi, prospera tuttora in certe zone del mondo; poi perché in Italia si è ben lontani dall’aver fatto davvero i conti con quella specifica realtà storica, la quale è stata ed è, da parte di molti per motivi ideologici o opportunistici, sottaciuta, ridimensionata, quasi giustificata o ritenuta poco significativa, se non addirittura negata; naturalmente a doverli fare questi conti sono anzitutto quelli che hanno sostenuto fino all’ultimo quel regime liberticida; e ultimo motivo  ma non meno importante, giacché qui si parla prevalentemente di letteratura, l’attualità deriva anche dal fatto che sono lì a illustrare tutto l’abominio di quei decenni anche altri non più eludibili capolavori: oltre all’ «Arcipelago» solženicyano, I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov, Vita e destino e Tutto scorre di Vasilij Grossman, Viaggio nella vertigine di Evgenija Ginzburg, oltre a numerose degne opere di testimonianza. Non meritano forse considerazione e rispetto?».

Certo, anche se sarei più propenso a indicare un’attualità di Solženicyn nella capacità di prevedere i guasti del capitalismo.

«Quando si ritrova in esilio, nonché prevedere, i guasti Solženicyn li vede e ne scrive. La realtà dell’Occidente che ha ora modo di conoscere dal vivo, gli parla, anche qui similmente all’Urss, di una crisi profonda di valori e prospettive e così lo scrittore affianca alla denuncia del totalitarismo dell’Est-Europa, e della permanente minaccia da esso costituita per il mondo, l’analisi altrettanto intransigente del vuoto di valori dominante nelle società affluenti. Pur contrapponendosi   alla civiltà sovietica, per Solženicyn quella occidentale stava affondando in un materialismo d’altro genere ma speculare rispetto a quello degli antagonisti est-europei: e con derive totalizzanti quanto a livellamento di gusti e consumi indotti, micidiale conformismo di idee e comportamenti; derive ritenute inevitabili, in quella che lo scrittore caratterizza come «civiltà del frastuono» con un effetto devastante che restringe sempre più gli spazi di  un’autonoma vita e ricerca interiore della persona».

È il tema del discorso di Harvard.

«Sì, lì l’esortazione è precisa. A promuovere nel singolo individuo l’esigenza di autolimitarsi a favore di un Tutto comune, primariamente, sia sul piano materiale, sia spirituale, elevandosi dal deserto di ideologie menzognere e dogmatismi sociopolitici, rinunciando alla sfrenata dilapidazione dei beni e delle risorse naturali in una ritrovata “giusta armonia tra la nostra natura fisica e quella spirituale”».

In un’intervista recente hai nominato 4 autori del dissenso russo che si sono a forza inseriti nell’immaginario occidentale. Pasternak con Il dottor Živago (protodissidente, lo definisci). Solženicyn con Arcipelago Gulag. Grossman con Vita e destino e Tutto scorre, Šalamov con I racconti di Kolyma. Eppure, dici, questi scrittori restano «l’altra faccia della luna». Perché?

«Ho usato quest’immagine, denotante l’aspetto oscuro e inquietante di una data realtà o questione, riferendola alla ricezione spesso inadeguata in Italia del fenomeno del dissenso in URSS. L’occasione è stata un mio contributo a una ricerca condotta dall’università di Firenze, presente in rete e in un volume a stampa del 2019: fuor di metafora, che l’eroica azione di resistenza civile e  morale del dissenso in URSS e negli altri paesi dell’Est –  e anche gli autori e grandi libri che ha espresso e/o dei quali si è alimentata –   siano stati visti dagli ambienti intellettuali d’area comunista, in Italia più influenti, come qualcosa di sospetto e inquietante, è fuor di dubbio.  Le riprove sono numerose e univoche: il criterio adottato e anche in qualche modo istituzionalizzato si condensa in un interrogativo semplice e incisivo, direi elementare. Questo interrogativo, praticamente una sorta di aut-aut presentato ai dissidenti, illustra bene quello che era l’approccio alla questione ed è sostanzialmente: «siete davvero per la democrazia o [non piuttosto] contro il socialismo?». Va da sé che quasi nessuno dei «transfughi antisovietici» soddisfaceva in modo accettabile le credenziali di idoneità della cattedra progressista italiana: Solženicyn neanche a parlarne, ma neppure Sacharov, Amal’rik, Sinjavskij, e altri meno conosciuti».

Sembra invece più facile la ricezione del premio Nobel Svetlana Aleksievič.

«Io ho conosciuto Aleksievič a Parigi e a Milano, mentre stavo lavorando alla traduzione della Preghiera per Černobyl’, poi a quella dei Ragazzi di zinco, sui giovani sovietici, spesso imberbi reclute, mandati a morire in Afghanistan, nelle rievocazioni di madri, mogli e sorelle. Dal 2002 in poi l’ho accompagnata, come amico e interprete, in varie regioni e città italiane per presentazioni, incontri, conferenze.

Devo dire che, quanto ai suoi libri, a parte la grande fama acquisita, non ci sia un prima e un dopo rispetto al Nobel del 2015. Già il primo libro di Aleksievič, non il primo che aveva scritto, ma quello del suo esordio in Italia, Preghiera per Černobyl, che ha preceduto di 13 anni il Nobel per la letteratura, aveva attirato l’attenzione della critica e iniziato a guadagnarsi quella platea di lettori ai quali poter proporre nel tempo le ristampe e gli altri libri. Era stata anche insignita a Roma del Premio Sandro Onofri 2002 per il miglior reportage narrativo».

È vero che ha trascorso anni in Italia, a Pontedera?

«Sì, per quasi un biennio, alla fine degli anni Novanta, era una delle città-rifugio, coordinate dal Parlamento europeo degli scrittori, per i colleghi perseguitati. Per poter continuare a lavorare, visto che nel proprio paese, la Bielorussia, era politicamente sgradita e i suoi libri, fino a tempi recenti,  non venivano pubblicati (a sbloccarli c’è voluto il Nobel) aveva soggiornato anche in Francia, in Svezia e ripetutamente in Germania, dove si trova attualmente, dopo l’adesione alla «nostra rivoluzione », che è anche la sua, contro Lukašenko».

Il suo metodo di lavoro è peculiare. Vuoi riassumerlo?

«Aleksievič ha spesso parlato del suo metodo di lavoro per comporre i propri docu-romanzi: dalle numerosissime interviste prevalentemente a donne d’ogni età e condizione sociale che raccoglie, svolte con notevole immedesimazione, fino alle lacrime, trasceglie passaggi memorabili, quali gemme della narrazione orale che per intensità e sostanza si apparentano alla grande letteratura (il maggior riferimento di Aleksievič è Dostoevskij). E questo rende le sue veritiere narrazioni non solo significative, ma anche coinvolgenti per il lettore».

C’è una pagina che, ancora oggi, dopo tutto quello che hai letto, che hai tradotto, che hai vissuto, ti commuove ancora? Come una sorta di depositum fidei letterario.

«Concludo proprio con uno dei racconti di Aleksievič, eccone il sunto: le figlie di un nemico del popolo deportate sotto Stalin in terre inospitali, languono con la madre in covili interrati e cantine; il marchio che portano significa per loro fame, malattia e morte nei bassifondi della società. Muoiono madre e sorella; Ol’ga, l’io narrante, spera in una parola amica, una qualsiasi, di uno sconosciuto: «Ho aspettato tutta la vita che qualcuno mi trovasse». Sul finire della narrazione la speranza dell’orfana si avvera: a un centro di raccolta di reietti come lei, è terrorizzata dalla doccia nella quale la disinfettano, continua a scivolare, teme di cadere per terra, sul cemento… «Ma un’estranea, un’infermiera… mi afferra al volo e mi stringe a sé: Uccellino mio, non aver paura». «Ho visto Dio» conclude Ol’ga. E quel vedere Dio cosa significa per Ol’ga? Sicuramente lo sperimentare la concreta presenza soccorritrice di chi finalmente «la trova», si accorge di lei, le apre le braccia, la salva».