La “Gabbiana” di Čechov in scena al Piccolo

David Foster Wallace e una citazione di Ungaretti (sul lago “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”), invece di Tolstoj e Turgenev.

Un televisore acceso su un videogioco, anziché il teatrino allestito nel parco. Sigarette elettroniche, smartphone che suonano per intervistare la grande attrice.

Luigi Tenco che canta dal vinile “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare”. La tombola: quella c’è sempre, nel testo di Čechov come nell’allestimento di Liv Ferracchiati.

 Lo spettacolo e il titolo originale

Il gabbiano dello scrittore diventa – prendendo spunto dal racconto di Wallace Caro vecchio neon, protagonista un aspirante suicida – Come tremano le cose riflesse nell’acqua (čaika), prodotto dal Piccolo Teatro di Milano e in scena fino al 25 febbraio.

 

Dove čaika è il titolo originale, significa appunto “gabbiano”, ma in russo è di genere femminile.

La “gabbiana” è Nina, ragazza con il sogno di recitare e volare dalla campagna nei teatri di Mosca, che però si infrange contro l’amore sbagliato per lo scrittore Trigorin e un talento forse non così spiccato. Ruolo importante per giovani attrici anche al cinema, come è successo a Pamela Villoresi diretta da Marco Bellocchio o più di recente a Saoirse Ronan con The Seagull.

Da flop a classico

Eppure, alla sua prima nel 1896, la “commedia in quattro atti” ebbe un risultato disastroso. Fu tre anni dopo, quando la ripresero Stanislavskij e Dančenko, che le sue sorti cambiarono.

Da allora  Čechov – Il gabbiano è stato il suo primo grande lavoro teatrale, dopo l’epoca dei giornali e delle novelle, poi ci furono Zio Vanja, le Tre sorelle e Il giardino dei ciliegi, di cui resta insuperabile la messinscena di Strehler – è il nome che, affiancato a Shakespeare, non c’è attore che non citi a proprio riferimento.

E i teatri continuano ad allestirlo, come di recente ha fatto Leonardo Lidi con la sua trilogia cechoviana o Irina Brook in Seagull Dreams che puntava a riflettere (anche autobiograficamente) sul senso del recitare.

Perché Il gabbiano ci “parla” ancora

Il dramma della malinconia, di una vita che non si risolve mai ma che, nel trascorrere degli anni, divora i sogni trasformandoli in tristezze incompiute, dove c’è chi come Kostja soccombe con un colpo di pistola e chi come la Arkadina sopravvive volontaristicamente al tempo che incombe nascondendo la paura sotto trucchi sempre più pesanti, il sogno “A Mosca! A Mosca!” che poi sarà nelle Tre sorelle e che è la fuga mai realizzata verso il futuro perché (Sorin) non si è mai riusciti a lasciare quelle acque chete: sono tante le corde che risuonano del fascino cechoviano.

Unite sempre a una chiave di leggerezza, di sorrisi anche quando poi in scena entra una pistola. Tutto questo però provoca oggi spesso in chi pensa allo scrittore russo una nube di “noia” che si aggira intorno ai suoi lavori.

In realtà, quella noia, che non si trova nella drammaturgia, basta spolverarla dal palcoscenico. È quello che ha fatto Liv Ferracchiati nel suo “testo originale attraversato dal Gabbiano di Čechov”. Lo ha fatto (sempre con la consulenza letteraria di Fausto Malcovati) anche con l’inserimento di scene, come un monologo dello zio preso dall’epistolario dello scrittore, o rielaborazioni del testo.

Per esempio nell’ultimo monologo di Nina, con la reiterazione ritmata di “Io sono un gabbiano” che tambureggia l’infelicità di ciò che è stato e per ciò che non è stato. Ma lo ha fatto anche con smartphone e dettagli del contemporaneo, perché ciò che succede in quella casa sul lago avviene oggi come nell’Ottocento. E con una leggerezza che, pur nel dramma, porta il sorriso.

La canzone di Luigi Tenco

Spiega Liv che in accademia quando si affronta Il gabbiano lo si vede come un’opera sul tema del talento. Per lui, invece, è una storia di libertà, della “frizione tragica” fra la sua ricerca e le forme che organizzano il mondo.

Il gabbiano che viene ucciso e che poi finisce impagliato è questo: le ali per volare e l’impossibilità del volo. Ma la ricerca della libertà non si può disgiungere dalla necessità dell’identità, della definizione dell’io, che può avvenire solo attraverso lo sguardo dell’altro.

Ed è una continua richiesta – inevasa – di amore. A partire dall’amore che il Figlio (a parte Nina, tutti i personaggi nello spettacolo di Ferrachiati sono identificati non dai nomi ma dal ruolo) pietisce dalla Madre, interpretata da Laura Marinoni.

Il giorno volevo qualcuno da incontrare / La notte volevo qualcosa da sognare”, canta il disco. Il pubblico sorride all’inattesa inserzione musicale.

Ma poi, a pensarci, la voce di Tenco, con il sogno di trovare se stesso attraverso l’altro, è quella del Gabbiano.