Tutti i colori di Werner Bischof

Saturi e vividi, velati o tenui. I colori possono essere in molti modi e molto si racconta attraverso di essi.

In ambiente fotografico il colore non riceve subito la considerazione che merita, ma si fa strada lentamente tra i negativi grazie alle intuizioni di alcuni pionieri. Lo hanno raccontato bene Marco Bischof, figlio del fotografo svizzero Werner Bischof, e Clara Bouveresse, professoressa all’Università di Evry/Paris Saclay specializzata in fotografia del Novecento, durante un talk al Masi di Lugano, organizzato all’interno della mostra Unseen Colour, aperta fino al 16 luglio 2023 e dedicata a inedite foto a colori del fotografo svizzero scomparso prematuramente nel 1954.

Queste fotografie a colori sono state una grande sorpresa per me” racconta Marco Bischof, responsabile dell’archivio del padre, “sapevo che c’erano dei negativi inediti nell’archivio e un paio d’anni fa ho voluto scoprire cosa contenevano. Ho visto la stessa immagine scattata tre volte, poi mi sono reso conto che la foto era stata scattata in tre colori diversi, da mettere insieme utilizzando dei filtri. È nato il desiderio di dedicare una mostra a questi Unseen colour, diventato realtà in collaborazione con il Masi di Lugano”.

Werner Bischof era nato a Zurigo nel 1916, si era formato come fotografo ed era diventato subito attivo nella sperimentazione in atelier, lavorando sia in bianco e nero che con i colori, per la moda e la pubblicità.

Bombay, India (1951)

Dopo la seconda guerra mondiale ha fotografato le macerie dell’Europa dilaniata dal conflitto, per poi entrare a far parte dell’agenzia Magnum, diventando un famoso fotogiornalista, noto soprattutto per i reportage in bianco e nero, come quello molto toccante sulla carestia in India.

Perché la componente cromatica nella fotografia a metà del Novecento non godeva di una buona reputazione? “Il colore era reputato irrealistico” spiega Clara Bouveresse, “molti fotografi pensavano che ci fosse meno potenziale creativo con le tinte, perché erano più commerciali. Nei media infatti era utilizzato per la moda e la pubblicità. Henri Cartier Bresson metteva da parte il colore nelle sue foto, nella sua visione serviva solo per fare soldi e la foto perdeva carattere artistico”.

Modella con rosa (1939)

In Werner Bischof c’è una consapevolezza diversa, come racconta il figlio. “Mio padre voleva diventare pittore e quindi per lui le sfumature erano fondamentali. Per questo già dal 1939 usa il colore nella fotografia, anche se non era facile da fare, perché richiedeva un processo tecnico costoso e complesso”.

Caro Emil, grazie per la tua bella lettera. Sono appena tornato dalla mia ultima ‘spedizione al Nord’. Questa volta l’incontro con i Sami è stato ancora più intenso della prima volta, ma non sono riuscito a fotografare quasi nulla. Il flash non funzionava (…). Avrei potuto piangere, così ho tirato fuori una candela dallo zaino e ho iniziato a disegnare” scrive Werner Bischof in una lettera del 1948 a Emil Schulthess, anch’egli fotografo.

Da queste poche parole si intuisce la sua passione per il reportage, soprattutto come racconto di culture e mondi lontani. Werner viaggiò molto con la moglie Rosellina, soprattutto in Giappone, a cui è dedicato il suo ultimo libro fotografico, con cui vinse il premio Nadar nel 1955.

Nel libro Japan mio padre accostò immagini in bianco e nero a immagini a colori, una scelta che allora non era comune” commenta Marco Bischof. Il 16 maggio del 1954, durante un viaggio in Perù, Werner perde la vita sulle Ande in un incidente stradale, a soli 38 anni. “Cercava nuovi modi di esprimersi attraverso la fotografia. È diventato famoso per il fotogiornalismo, ma non era solo questo. Siamo felici di questa mostra perché ha evidenziato anche altri aspetti della sua fotografia” conclude il figlio dell’artista.

Per Bischof il colore serviva ad abbracciare ancora di più il soggetto che voleva ritrarre, per restituire un reportage sincero e dettagliato. Nella mostra Unseen Colour si trova anche una delle immagini più discusse del fotografo svizzero: il volto di un bambino dei Paesi Bassi ferito per aver giocato con una mina. Qui l’immagine a colori ha un impatto molto più forte rispetto al bianco e nero.

NETHERLANDS. Town of Roermond. 1945.

Al Masi Lugano sono esposte circa 100 stampe digitali a colori da negativi originali restaurati per l’occasione. Le immagini inedite coprono un arco temporale dal 1939 agli anni ’50, dagli still life per la pubblicità alle immagini dell’Europa postbellica, dal viaggio in Italia all’America centrale, fino all’Asia. Ma non solo.

Sono esposti anche poster pubblicitari turistici, come quello dell’Engadina, lettere private, libri e soprattutto le tre macchine fotografiche che hanno accompagnato Werner Bischof nei suoi viaggi.

La Devin Tri-Color Camera, solitamente esposta al Musée suisse de l’appareil photographique a Vevey, è la macchina acquistata dall’editore delle riviste Du e Zürcher Illustriert appositamente per Bischof, che la utilizzerà per ritrarre le città tedesche dopo il 1945. Hanno un formato quadrato invece le fotografie scattate con la Rolleiflex 6×6, che ha accompagnato il viaggio di Bischof in Asia, mentre per gli Stati Uniti il fotografo ha scelto la piccola e agile Leica.

Con la sua morte prematura, Bischof non ha potuto veder nascere il suo secondo figlio, né assistere alla riabilitazione del colore nella fotografia, arrivata circa 20 anni dopo la sua morte.

Pian piano sono state realizzate delle mostre con fotografie a colori al MOMA di New York, in particolare è stata fondamentale quella del 1976 di William Eggleston. Tutto è cambiato e la brutta reputazione delle foto con una componente cromatica è stata superata. In Magnum tradizionalmente usavano il bianco e nero, ma a partire dagli anni ’80 la nuova generazione di fotografi ha iniziato a usare il colore” conclude Clara Bouveresse.