A San Pietroburgo sulle tracce di Lenin

E ci fu una partenza. E ci fu un viaggio verso Nord. In città sdraiate sul Baltico, o immote in mezzo al nulla. Grandi, però, antiche e appena tormentate. Da uomini forti, spigoli in viso e Rivoluzioni nelle mani. Uomini che avevano gleba e servi e dacie silenti. Che avrebbero potuto, chissà, volgere sguardi altrove. Tanto, Vlad, lo spazio non mancava. Nemmeno il tempo. Mancava però la resa, nel cuore.

La resa agli abissi di fame e di rabbia che intorno a te trovavi. Quei volti scavati da abusi antichi, da cesari tronfi e vili, da Palazzi d’Inverno intravisti soltanto. Bucoliche tenute e verdi ville, che ospitavano falò – che conforto, quando lupi nella steppa gridano, quando sabba si avvertono nel fischio dei venti! -, stucchi veneziani e vini Ongaresi.

Altri, intorno agli “happy few”, facevano misero cerchio. Brama nelle dita e orbite spente. Odio, talvolta. E verso Nord, taiga bruciata e gelo azzurro, l’odio può essere buono e giusto. Ma era scomposto, Vlad, tu lo sai, vero?

Erano porti stridenti di ghisa e di fatica. Erano prati incolti, falci su dossi. Erano fabbriche lente, fabbriche buie, catene sullo sfondo. Martelli gettati senza parere. Invece occorrevano, quei martelli; chiedevano muscoli e ghigni stravolti, urlavano alla plebe inane e piegata. Da morbi e da lutti. Da falci mai impugnate davvero.

Ilic visionario e indomito, Ilic feroce e mansueto, Ilic con un sogno pazzo, sì! e gettato oltre il cuore, oltre steppe e covoni e cantieri ribelli. Vlad e la Neva, che nulla davvero ha sfiorato. Rimasta via lattea e cometa per chi, come me, un giorno del secolo scorso partì. Diretta a Nord, cercando notti bianche che, poco prima, mi erano scese nel Libro della memoria.

Le trovai, infine. Ebbi i miei crepuscoli d’avorio camminando, folle di nostalgia – per cosa, poi? non seppi. C’era quel tormento, mi seguiva ovunque. Venne con me ai confini del mondo e mi accarezzò lungo il fiume – fino alle terre estreme. Mar di Finlandia, primavera incerta e io lì, incredula. Davanti a tutto quel ghiaccio. Ghiaccio blu ovunque, Baltico in metamorfosi. Peccato, poeta esiliato a Tomi, tu mai l’abbia visto. Consola, sai?

La baia inghiottita da strano silenzio. Non lo capivo, cercavo di ascoltarlo. Non era di questa galassia, pareva un portale. Verso piramidi e templi Incas e menhir incurvati. E io, durante quel viaggio, adamantine notti e rivoluzioni in testa, ogni cosa dimenticai. Avrei desiderato – davvero – lì restare. La Neva dietro di me e di fronte il ghiaccio blu cobalto. Qualche lampione estraneo qua e là e la tua Ombra, Vladimir bello e affilato.

Il tuo nome, pochi decenni fa, ancora inciso nella città. Grad, come conviene alle slave terre in cima all’orbe terracqueo. La Grad di Lenin, dove viaggiai per trovarti. Ma tu non mi aspettavi. Trovai invece vassalli pigri, sogni sfranti e icone impazzite d’oro. Soldati dimenticati. Cantieri lenti, Vlad, troppo lenti. Lo sai tu e lo so io.

Era solo questione di tempo. Peccato, però. Era un bel sogno, il tuo. Concepito passeggiando, come me, fino al Baltico fermo, mar di Finlandia troppo azzurro per un sogno di rosso carminio intessuto.

Di falci spezzate. Martelli, chissà dove, dispersi e arrugginiti. Eppure quel mare, Vladimir. Quel blu.

 


 

Sei anni fa scrissi questa memoria di un viaggio compiuto alla fine degli anni Ottanta in Russia, a Leningrado, come ancora per poco si sarebbe chiamata, e a Mosca.

I palazzi sulla Neva

Nell’elegante città di canali e di palazzi affacciati sulla Neva rimasi il tempo necessario per innamorarmi. Delle luci accese in cielo fino a tarda sera, delle notti che – era primavera inoltrata – lente ma costanti si allungavano, delle camminate in apparenza infinite su percorsi che portavano verso un’unica meta.

Il Mare di Finlandia, nei primi mesi dell’anno completamente ghiacciato. Si arrivava lì, ai confini del pianeta, o così pareva, si facevano due passi nel vuoto e ci si trovava nello spazio. Una galassia di acqua congelata e di celeste vivo, la pagina di un prezioso codice miniato. Lapislazzuli e cristalli, mescolati sotto i piedi a formare una strada lunga in direzione del nulla ma non per questo meno solida di vicoli asfaltati.

Il giovane rivoluzionario

Sembrava un’illusione ottica, invece era una pista di pattinaggio naturale e transitoria, che a breve si sarebbe sciolta fra onde violente e dopo un paio di stagioni si sarebbe di nuovo consegnata alla stasi. Al silenzio delle galassie. A un Cocito che non perdona.

Fu un attimo, in quei giorni, ripensare al giovane rivoluzionario che nella città blu aveva decenni prima concepito una visione. Giudicata follia scatenata o un bambinesco progetto destinato a confondersi con le foglie morte della Prospettiva Nevskij. Invece la piccola utopia era stata nutrita da buone letture e da un’indole malinconica che impediva di serrare gli occhi di fronte alle discrepanze fra gli uni e gli altri, i poveri e i ricchi, i principi e gli operai dei cantieri navali. La fame e i banchetti, le mani screpolate e i guanti di velluto.

Era destino ineluttabile, volontà di dio oppure di un monarca che si credeva “cesare” e dei fasti faceva inalienabile diritto? Tanto, poi, sempre gli stessi pagano. Pagano tutti, o quasi. Tranne chi siede in prima fila ai simposi.

Le origini di Lenin

Vladimir Ilic Lenin era nato a Simbirsk da una famiglia agiata ma il trauma dell’esecuzione, avvenuta nel 1887, del fratello impegnato in politica, lo indusse a interessarsi al socialismo rivoluzionario.

Nel periodo in cui frequentava l’università a Kazan partecipò a diverse proteste contro il regime zarista e, una volta espulso in quanto sedizioso, si dedicò con impegno a concludere gli studi a San Pietroburgo, iscritto come studente esterno, e a laurearsi nel 1891 in Giurisprudenza, primo fra i 134 compagni del suo corso.

A ventitré anni, nel 1893, si trasferì in modo stabile a San Pietroburgo e proprio nella capitale imperiale affacciata sul Baltico iniziò una brillante carriera. In breve, diventò un personaggio di spicco nel Partito Operaio Socialdemocratico Russo, di stampo marxista.

Una piccola, immensa utopia

Il resto è storia. Mi piace immaginare il giovane Vladimir (prima bambino allegro e precoce che a cinque anni sapeva leggere e amava fare scherzi; in seguito adolescente incupito da alcuni lutti familiari e diventato pensoso e riservato, a tratti scostante; una volta adulto, dedito a studiare i filosofi e gli economisti europei che contestavano le basi del capitalismo) che di sera spesso si ritrovava a macinare chilometri tra le vie lussuose della città amata ma di cui sentiva stridere con forza le contraddizioni.

Un passo dopo l’altro, il colbacco ben ficcato in testa e il lungo cappotto di astrakan insufficiente a tenere gli spifferi fuori dalle maniche, il corpo asciutto incurvato da pensieri spettinati e da progetti incendiari, Vlad giungeva al porto. La baia bianca spalancata di fronte a lui, la banchisa incrinata, se osservava con attenzione.

Però quel blu freddissimo e squadernato sul nulla dell’orizzonte tremolante gli scendeva nel cuore come un’armonia promessa. Si sentiva nomade della vita e del tempo, forse avrebbe voluto sparire in tutto quel ghiaccio confuso tra cielo e terra.

O semplicemente continuare a camminare piano, scendendo sulle lastre con cautela e tenendo la barra dritta e puntata a settentrione. Verso le regioni artiche dell’emisfero boreale, il circolo polare e altro azzurro eburneo che fa male allo sguardo. Correre, poi, fino a inciampare precipitando in un luogo estremo e silente.

Se, come si narra, ai discepoli che gli chiedevano “Perché l’uomo è al mondo?”, Pitagora rispondeva un laconico “Per osservare il cielo”, ebbene, amo pensare che il nostro inquieto giovane di testa e di azione – lotta di classe e riviste fondate clandestinamente, libri proibiti e socialdemocrazia – nutrisse, lontano da sguardi indiscreti e quando il rigore etico che lo guidava glielo permetteva, un’unica piccola e immensa utopia, forse la sola che conti.

Essere dentro e fuori le cose del mondo, diventare i quattro punti cardinali, il deserto e la banchisa. E prima di morire, dieci o mille anni dopo i serotini pellegrinaggi, alzare gli occhi e guardare le stelle come l’ultimo dei cosmonauti. Le comete e le costellazioni evanescenti. Vladimir e la città blu. Le sue notti bianche e pace sotto e sopra.

Prima del sangue. Prima della caduta e del sogno annegato nella Neva come un detrito fra i molti. Della Storia. Dimenticato.