Bielorussia: identità ondivaga

«Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». I bielorussi che conoscono bene Eugenio Montale non possono non riconoscersi nei suoi versi. Perché il «ciò che non vogliamo» delle proteste popolari esprime quasi solo un «No» al potere di Aleksandr Lukashenko, corrisponde perfettamente al «ciò che non siamo». Ovvero a una Storia nazionale lunga, movimentata e perigliosa, che però si è quasi sempre definita per negazione: noi bielorussi non siamo questo né quello ma fatichiamo a pronunciare «la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro». Fatichiamo, insomma, a dire chi e che cosa esattamente siamo.

D’altra parte la Storia è quella e non mente. La Bielorussia è sempre stata terra di passaggio e di confine e la sua identità è multipla e sfuggente. Abitata nell’antichità da tribù baltiche (Terzo secolo) e poi da tribù slave (Quinto secolo) subentrate a quanto pare senza traumi bellici di rilievo, produce il primo mito costitutivo con i principati di Polack e Turau, che tra il Decimo e il Dodicesimo secolo ebbero parte non secondaria nella Rus’ kieviana.

Polack, in particolare, sede di una delle tante cattedrali di Santa Sofia che a partire da Kiev punteggiarono quella temperie spirituale, è una delle più antiche città abitate dagli slavi orientali, tanto da essere nominata nella Cronaca degli anni passati in relazione all’anno 862. Di questa città era originaria Rogneda, presa con la forza in moglie da Vladimir I di Kiev. Lei complottò per ucciderlo, non prima di avergli dato il figlio che divenne il gran principe Jaroslav il Saggio. Lui, Vladimir, la esiliò appunto a Polack, dove Rogneda si fece monaca con il nome di Anastassija.

Interessante, e infatti Polack comparirà, secoli dopo, negli argomenti dei nazionalisti d’opposizione e di regime. Ma non abbastanza per decidere che lì era nata una nazione. Anche perché i principati “bielorussi” ebbero sempre vita grama per l’espansionismo dei tatari dell’Orda d’Oro i quali, pur senza ottenere conquiste stabili e durature, da Est invasero parte dell’odierna Bielorussia e finirono per insediarsi, pacificati, pure loro.

Quel che più conta, però, è che questi territori furono sempre parte di entità più ampie e solo in parte corrispondenti allo spirito e alla natura delle popolazioni che le abitavano. Della Rus’ kieviana e cristiana, abbiamo detto. Poi, tra il Quattordicesimo e il Sedicesimo secolo, fu la volta del Granducato di Lituania. Quindi, dal 1569 (Unione di Lublino), lo Stato delle due nazioni, ovvero la fusione tra Polonia e Lituania. E da fine Settecento, con la prima spartizione della Polonia tra Russia, Prussia e Austria, il ritorno nell’ambito russo sotto l’egida del potere zarista.

Quel che succede, in conclusione, è che all’alba dell’evo moderno diventa difficilissimo definire i bielorussi in maniera univoca. Sono slavi o baltici? Chi può dirlo, in un Paese in cui i gruppi etnici prevalenti sono stati, per secoli, bielorussi, polacchi, russi, ebrei (a fine Ottocento erano quasi il 15% della popolazione), ucraini e lituani, capaci di vivere fianco a fianco senza particolari conflitti? Chi può dirlo con certezza in una terra i cui abitanti, per definire sé stessi, hanno di volta in volta usato termini come belorusy, certamente, ma anche rusini (o ruteni), polashuki e litviny, sulla cui derivazione da Russia, Polonia e Lituania non è il caso di spendere troppe parole, se non per sottolineare che, come spiegano gli specialisti, tali autodefinizioni si scambiavano e si sovrapponevano in grande libertà tra gruppo e gruppo, città e campagna, cristiani ortodossi e cattolici, ricchi e poveri.

E ancora: un vecchio costume delle popolazioni dell’attuale Bielorussia era di definirsi tutejshy, ovvero “quelli del posto”, “quelli di qui”. Un’efficace scappatoia alla confusione identitaria e un ottimo sistema per non dirsi polacchi o russi o lituani o chissà che, e quindi assorbire l’andirivieni di amici, nemici, dominatori, alleati e genti più o meno di passaggio. Il che farebbe pensare che dunque contasse il territorio, il luogo: chi vive qui, in Bielorussia, è un bielorusso. Sì, ma relativamente. A ben vedere, sappiamo con certezza quale sia il territorio bielorusso solo dal 1922, da quando la Repubblica Socialista Sovietica di Bielorussia partecipò, con le gemelle Ucraina, Trancaucasica e Russa, alla fondazione dell’Unione Sovietica. Perché prima, e per secoli, era stato tutto un taglia e cuci, allarga e stringi tra Lituania, Russia e Polonia e poi, più avanti, di nuovo Polonia, Svezia, Francia (il disastro napoleonico della Beresina avvenne qui, nel 1812), gli Imperi Centrali e la Germania nazista, fino appunto all’Urss. E un secolo non è poi molto per far fermentare un’identità collettiva sulla base di un comune confine.

La cultura, allora? Anche in questo caso è stata dura la vita, per l’elemento autoctono, sballottato in permanenza tra i tentativi di “polonizzazione” (dall’Unione di Lublino del 1596 fino ancora ai primi del Ventesimo secolo) e le teorie del zapadnorussizm (russismo occidentale) che per tutto l’Ottocento provò a ridurre i bielorussi, anche per le esigenze politiche del controllo zarista, a una propaggine occidentale del grande e unico popolo russo. Con la polonizzazione arrivarono in Bielorussia nobili polacchi, proprietari terrieri polacchi, costumi polacchi e la lingua polacca, insegnata nel caso anche attraverso una rete di scuole clandestine. I bielorussi erano considerati dei polacchi dell’Est. Con il russismo, ma in maniera più stabile, massiccia ed efficace, l’esatto contrario: i bielorussi come russi dell’Ovest.

In questa storia bielorussa dominata dai non bielorussi non sono ovviamente mancati i sussulti, gli scatti d’orgoglio nazionale. Per esempio la rivolta anti-russa scoppiata nel gennaio 1863 in Polonia e qualche mese dopo arrivata anche in Bielorussia, non a caso nel periodo in cui un pensiero nazionalistico bielorusso, radicato nelle vecchie glorie del Granducato di Lituania, si affacciava nei libri e nei giornali. Proprio Konstanty Kalinowski, prima di diventare il leader dell’insurrezione in queste terre ed essere prontamente impiccato dai russi, era stato il primo a pubblicare e dirigere un giornale in lingua bielorussa, La verità del contadino, stampato in caratteri latini.

Fu in definitiva la scintilla accesa da questi populisti bielorussi, pur privi di un vero radicamento nel popolo allo stesso modo dei loro colleghi populisti russi, a far parlare per la prima volta in modo organico di un’identità autonoma bielorussa e a portare, qualche decennio dopo, alla nascita dei primi veri partiti politici bielorussi, a cominciare dal Partito Rivoluzionario Bielorusso fondato nel 1902.      

L’altalena andò avanti fino alla prima guerra mondiale, quando la Bielorussia (non per la prima e nemmeno per l’ultima volta) divenne campo di battaglia e larghe porzioni del Paese ricaddero sotto il contro austro-ungarico.

I tedeschi, con grande sorpresa dei prelati ortodossi che avevano incitato i fedeli ad andarsene, mostrarono una certa moderazione e, al contrario, cercarono di sfruttare il nascente sentimento nazionale in chiave anti-russa. L’insegnamento in lingua russa fu proibito, quello in lingua bielorussa incentivato, proprio come la pubblicazione di libri e giornali in bielorusso. Il clima concitato e confuso della rivoluzione bolscevica, della guerra mondiale e del Trattato di Brest-Litovsk (3 marzo 1918) che sancì l’uscita della Russia dal conflitto, produsse (nella notte tra il 24 e il 25 marzo 1918) la nascita della Repubblica Popolare di Bielorussia, alla cui bandiera bianca-rossa-bianca si richiamano molte delle attuali delle attuali proteste anti-Lukashenko.

La Repubblica, iniziativa di un gruppo ristretto che non godeva di consistente sostegno popolare, non fu riconosciuta né dai tedeschi né dai bolscevichi e i suoi dirigenti andarono in esilio già nel 1918, non appena i bolscevichi rientrarono in Bielorussia. A oggi, il governo della Repubblica Popolare di Bielorussia è il più “vecchio” governo in esilio del mondo.

Ci fu ancora spazio per il tradizionale braccio di ferro tra “polonizzazione” e “russismo”, attraverso lo scontro tra la Polonia del maresciallo Pilsudski che prometteva di riportare in auge le antiche glorie lituano-polacche, e i bolscevichi che sbandieravano le idee della rivoluzione, con l’inevitabile corollario di alcune disperate e vane rivolte di contadini bielorussi che non volevano né l’una né l’altra cosa. Finché tutto ebbe fine il 18 marzo del 1921, con il Trattato di Riga e la spartizione della Bielorussia, l’ennesima, tra Russia e Polonia.

Dunque non l’etnia, non il territorio, non la cultura. Quale potrebbe essere, quindi, l’elemento unificante? Forse la lingua? No, perché ancora oggi l’84% della popolazione (i bielorussi autoctoni) parla volentieri e adopera per gli usi ufficiali la lingua dell’8,5% (i russi). La religione? Nemmeno. Perché a ben vedere, la religiosità più intimamente “bielorussa” era quella che nel 1595 aveva espresso l’Unione di Brest-Litovsk, ovvero l’uscita dalla giurisdizione del patriarcato ortodosso di Costantinopoli e il rifiuto di accettare quella del patriarcato ortodosso di Mosca per proclamare una forma, appunto, di uniatismo con la Chiesa cattolica di Roma, con il mantenimento del rito greco e l’accettazione dell’autorità del Papa, in quel momento Clemente VIII. Uniatismo che fu poi attaccato prima dal prevalere dell’influenza polacca, che ovviamente promosse il cattolicesimo, e poi da quella russa, che altrettanto ovviamente promosse l’ortodossia in epoca zarista e il culto dello Stato in quella sovietica.

E con questo non siamo arrivati ai giorni nostri. Ma a Aleksandr Lukashenko in un certo senso sì. Quando l’ex direttore di kolchoz diventa per la prima volta Presidente, nel 1994, il vento del nazionalismo è in crescita, come in tutte le ex Repubbliche che hanno mollato l’ormeggio sovietico. O che ne erano state mollate: al referendum del 17 marzo 1991 sulla conservazione dell’Urss, l’83,72% dei bielorussi aveva risposto “sì”. In quegli anni, oltre il 30% degli studenti del Paese seguiva corsi in lingua bielorussa, contro il 20% attuale. E la ragione del calo è semplice. Nel 1995, poco dopo essere diventato Presidente, Lukashenko organizzò un referendum tra trasformare il russo nella seconda lingua ufficiale del Paese. L’approvazione arrivò con l’83% dei consensi, anche se già allora le opposizioni parlarono di brogli e di risultati gonfiati ad arte.

A Lukashenko, in quel momento, non serviva una mistica nazionale. Al contrario. Anche al netto delle ambizioni e delle macchinazioni che gli sono state attribuite (tra cui anche il progetto di prendere il posto di Boris Eltsin in una federazione post-sovietica di nazioni ex-sovietiche), per superare la crisi economica gli era indispensabile un forte rapporto con la Russia e un facile e poco costoso accesso ai suoi immensi depositi di risorse naturali, in particolare gas e petrolio. E bisogna riconoscere che proprio in quell’esercizio di realismo sta il relativo successo economico della Bielorussia, che ha un Pil pro capite doppio rispetto a quello della confinante Ucraina. Ancora oggi il 47% delle esportazioni bielorusse, prodotte da un sistema industriale che per tre quarti è rimasto sotto il controllo dello Stato, prende la strada della Russia. E il trucchetto di comprare petrolio russo a prezzo di favore per poi rivenderne parte consistente all’estero ai prezzi assai più alti del mercato mondiale, ha egregiamente soddisfatto le esigenze del bilancio di una nazione di dieci milioni di abitanti.

L’ancoraggio al passato sovietico, inoltre, consentiva a Lukashenko di sottrarsi all’imperante (allora) politica delle riforme e delle privatizzazioni (tanto da venire poi “scomunicato” dal Fondo Monetario Internazionale), con il non trascurabile effetto secondario di consolidare il suo potere personale. Ecco allora l’esaltazione del retaggio russo, la rivendicazione delle radici comuni, il rapporto privilegiato con Mosca, le prospettive di federazione e magari riunificazione, l’uso massiccio della lingua russa a discapito di quella bielorussa.

Il tutto santificato dalle memorie della seconda guerra mondiale e dell’occupazione nazista, che in Bielorussia produssero le più atroci distruzioni. La folta comunità ebraica fu annichilita, 210 delle 290 città bielorusse furono rase al suolo, le grandi battaglie sconvolsero la Repubblica e l’eroismo dei suoi partigiani fu pagato con un altissimo tributo di sangue. Come risultato, fino a qualche anno fa il 57% dei bielorussi giudicava il 3 luglio, giorno della liberazione della capitale Minsk dai nazisti, come la principale festa nazionale mentre solo l’1% faceva altrettanto con il 25 marzo, giorno della proclamazione della Repubblica Popolare di Bielorussia. Allo stesso modo, il 73% dei bielorussi giudicava vera bandiera nazionale quella rossa e verde, quasi identica a quella dei tempi sovietici, mentre solo l’8% faceva lo stesso con quella bianca-rosso-bianca della Repubblica Popolare di Bielorussia che oggi sventola nelle file dei manifestanti.

Il risultato di questa identificazione con un passato recuperabile a livello retorico ma non più vissuto e inutile dal punto di vista pratico come quello sovietico, non poteva che indebolire qualunque tentativo di costruire un’identità nazionale forte. E infatti, uno studio condotto nel 2013 dal Belarusian Institute for Strategic Studies mostrava come i bielorussi rispondevano quando si chiedeva loro di indicare quale fosse il criterio principale per scegliere un Paese alleato. Il 72,9% diceva “il vantaggio economico per la Bielorussia”. Lontanissimi i criteri più collegati all’identità nazionale (6,3% a “conservazione dell’identità nazionale” e 5,7% a “promozione dello stile di vita tradizionale”) o alla coscienza politica (7,3% a “rafforzamento della democrazia” e 3,7% a “ricostruzione dell’Urss”). Questo in un Paese dove solo pochi anni prima un sondaggio dell’Independent Institute of Socio-Economic and Political Studies aveva appurato che il 60% degli interpellati era favorevole all’unione con la Russia.

Non si resta tanto a lungo al potere, però, se non si hanno antenne sensibili e la capacità di adattarsi ai tempi. Nel 2014, quanto la rivolta di Piazza Maidan scuote gli equilibrii politici in Ucraina e innesca la reazione del Cremlino in Crimea e nel Donbass, lui si muove con prontezza fulminea. Intimorito tanto dal crollo di Viktor Janukovich a Kiev quanto dalle azioni di Vladimir Putin, ovvero sia dal rischio di un sommovimento interno sia dal pericolo di un’ingerenza esterna, il Presidente cambia in un attimo l’orientamento politico. L’unione con “altri Paesi” (e quali, se non la Russia?) diventa un pericolo da evitare. L’intesa cordiale con il Cremlino per le forniture di petrolio a prezzo stracciato un cappio da allentare.  L’Occidente non è più il nemico storico ma un’alternativa praticabile, prima con la distensione dei rapporti con l’Unione Europea, poi addirittura con l’apertura di un dialogo con gli Stati Uniti, fino alla clamorosa visita a Minsk del segretario di Mike Pompeo, segretario di Stato americano, nel febbraio del 2020. Il multilateralismo pacifico viene affermato come un valore da inserire nella Costituzione.

A cascata, fu promosso l’adeguamento del corrispondente armamentario culturale. Il vecchio principato di Polack e il più recente Granducato di Lituania ritrovarono un posto nel discorso pubblico, anche come segno di una antica comunanza di radici con l’Occidente. Per la prima volta, nel centenario della proclamazione, il ricordo della Repubblica Popolare di Bielorussia e l’immagine del suo stendardo bianco-rosso-bianco poterono essere celebrate ufficialmente, con un concerto nella capitale Minsk, una serie di incontri e dibattiti e persino un talk show televisivo a cui prese parte lo stesso Lukashenko.

Il “caso della Repubblica” era, con ogni evidenza, il perno della nuova politica culturale del regime e della costruzione del consenso intorno alla svolta che doveva portare la Bielorussia in una posizione meno schiacciata sulla Russia e più aperta all’Occidente. Lukashenko fu attento a non santificare l’esperienza del 1918-1919 ma, con la stessa astuzia, provò a trasformarla in un esempio anti-litteram del nuovo atteggiamento. Quale fu la colpa della Repubblica Popolare? Non opporsi con la dovuta decisione all’occupante tedesco. E quale fu la conseguenza? Aver provocato la reazione dei bolscevichi che, nel timore di vedere la Bielorussia consegnata agli Imperi centrali, stroncarono alla radice i suoi passi verso l’autonomia. Un tentativo nemmeno troppo maldestro di ridurre al ruolo di invasore sia gli eserciti arrivati da Ovest sia i rivoluzionari arrivati da Est.

Nello stesso tempo, i giornali di Stato pubblicavano gli editoriali di Vjaceslav Danilovic, direttore dell’Istituto di Storia dell’Accademia delle Scienze della Bielorussia, che definiva la proclamazione della Repubblica, nel 1918, «la logica continuazione dei precedenti sforzi dei partiti e delle organizzazioni bielorusse per affermare l’idea dello Stato nazionale». Allo stesso modo fu favorito e incrementato l’uso della lingua bielorussa nelle scuole, nelle pubblicazioni e, ovviamente, nelle trasmissioni delle radio e Tv di Stato.

Insomma, l’eterno pendolo dell’autocoscienza bielorussa era tornato a muoversi verso la “polonizzazione” dopo una lunga stagione di “russismo”. Uno spostamento che corrispondeva, è vero, all’ondivaga storia dell’identità bielorussa ma che per Lukashenko, come abbiamo ben visto nelle settimane calde della recente protesta popolare, aveva un carattere di sola convenienza politica del momento. Ora che la contestazione scuote le basi del suo potere e l’indulgenza del Cremlino è decisiva, il Presidente è tornato a esaltare il legame con la Russia e a parlare di “un solo popolo da Vladivostok a Brest”, dalle acque del Pacifico al fiume Bug che segna il confine tra Bielorussia e Polonia. Rimettendo così i bielorussi nel posto dove li volevano i vecchi imperialisti russi, quello dei russi dell’Ovest. E riaprendo uno spiraglio nella porta custodita dal Cremlino, quella della federazione tra i due Paesi.

È difficile prevedere come tutto questo possa concludersi. E’ piuttosto facile invece concludere che finché non emergerà un’idea politica forte, ovvero una proposta un po’ più articolata del semplice “no” a Lukashenko, la protesta popolare difficilmente potrà ottenere il cambiamento che si propone. E non si vede come possa emergere, quest’idea forte, finché i bielorussi non avranno elaborato un’immagine di sé più definita e meno ondivaga. Pare brutto dirlo, ma la Storia favorisce chi riesce a cavalcarla o, in mancanza di meglio, a manipolarla.