Davvero niente di nuovo sul fronte occidentale

Venuto fuori dalla nebbia, un fantasma senza passato né futuro. Questo è ciò che rappresenta in The Others di Alejandro Amenábar il personaggio di Charles: un soldato tornato dal fronte che non appartiene più a nessuna dimensione, se non a quella della battaglia.

Perseguitato da visioni, incapace di ricordare, così come di andare avanti e che sa solo ammettere: “A volte sanguino”. Un’immagine quasi muta del pensiero di Erich Maria Remarque, soprattutto del suo primo romanzo, Niente di nuovo sul fronte occidentale (1928). “La guerra ci ha guastati per sempre. Non siamo più giovani, non ci interessa più l’assalto al mondo. Siamo dei profughi, fuggiamo da noi stessi”.

Perché più che narrare, nei libri quanto nel cinema, cosa comporta, dà o aggiunge, del conflitto bellico è più difficile raccontare cosa toglie. E lo scrittore tedesco, trasferito sul fronte occidentale e ferito nel 1917 nelle trincee, per tutto il corso della sua carriera non farà che tornare sull’irreversibilità del soldato: ormai senza più pudore, né sogni, inabile al dolore, un’“oltreumanità” che ha superato la linea nemica dei propri limiti. “Quelle cose care sono esistite, ma non torneranno mai più. Sono passate, sono un mondo diverso, che per noi è perduto per sempre”.

Proprio questo punto sancisce la mancata messa a fuoco del film Niente di nuovo sul fronte occidentale (dall’omonimo romanzo di Erich Maria Remarque, 2022, con la regia di Edward Berger, disponibile dal 28 ottobre su Netflix).

Un’opera esteticamente perfetta, senza ombra di dubbio, che lascia trapelare uno studio approfondito del cinema di guerra: c’è il fango e la debole saturazione dei campi di battaglia in Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood; l’illuminismo e la ricerca disperata di una trattativa per Daniel Brühl, che interpreta il diplomatico Matthias Erzberger, molto simile a Kirk Douglas in Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubrick; la faccia completamente nera da cui sfolgorano gli occhi azzurri di Felix Kammerer, come Martin Sheen in Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola; il cameratismo e l’ignoranza di ciò che il futuro imminente preserva alla “gioventù di ferro”, come nel discorso ai laureati ne I cancelli del cielo (1980) di Michael Cimino.

Grandi riferimenti che affollano l’immagine cinematografica senza dimenticare gli episodi più cruenti dell’opera di Remarque: il cadavere arrivato sulla cima di un albero per un colpo di bombarda, i corpi gassati delle reclute, il tentativo di suicidio con una forchetta piantata nel collo.

C’è tutta la disumanità della guerra, quella che giustamente ognuno è chiamato a disprezzare, eppure l’immagine, così piena di richiami, difetta dell’oltreumanità che Remarque aveva a cuore: l’indifferenza dei soldati, che poi diventerà quella dei reduci, molto spesso causa e conseguenza dei nazionalismi che presero il potere nel dopoguerra.  Perché al cinema, come a tutte le arti, non dovrebbe mai accadere di dimenticare le zone d’ombra, ciò che accade dietro gli occhi che fissano la macchina da presa, i demoni. Occupare l’immagine di vuoti invisibili, i fantasmi che dominano la mente.

Ciò che non manca al film di Edward Berger è la fotografia esatta della scelleratezza dei generali, la caparbietà e la negazione della sconfitta per non rinunciare a un proprio prestigio o egoismo: se il generale tedesco Friedrichs non può che rammaricarsi di essere nato nel periodo sbagliato “Mezzo secolo senza una guerra, cos’è un soldato senza una guerra?”, con lo stesso disappunto i delegati della negoziazione francese si lamentano per dei croissant poco freschi.

A chi ha il potere di vita e di morte interessa avere solo le scarpe pulite, in tempo di guerra o di pace. In mezzo, come dall’inizio del mondo e come sarà sempre, da entrambe le parti, una contro l’altra nelle trincee: la “povera gente”. Gli studenti chiamati dai propri insegnanti ad atti di coraggio per la patria, calzolai con una famiglia, fabbri che sognano una carriera militare in tempo di pace, tipografi uccisi a mani nude, morti soffocati nel loro stesso sangue.

Persone che senza un ordine di uccidere a cui dover obbedire avrebbero discusso davanti un bicchiere di birra e del pane da affettare. Questo è il pensiero che passa negli occhi di Paul Bäumer – protagonista e alter ego di Remarque – un attimo prima che venga ucciso un suo coetaneo francese in un corpo a corpo.

Niente di nuovo sul fronte occidentale di Edward Berger è quasi fedele al romanzo come concatenazione di eventi, ma interrompe una riflessione sullo svuotamento di umanità di chi imbraccia il fucile, e tornando a casa saprà di non essere più lo stesso.

Eppure in tempi come questi, in cui si fa un gran parlare con entusiasmo e superficialità di conflitti, bombe atomiche ed invio di armi, resta un’opera da vedere come monito soprattutto per chi propone gli scontri come soluzione con fin troppa leggerezza: sul fronte occidentale morirono tre milioni di persone – ricorda Berger alla fine del film – per guadagnare poche centinaia di metri. La guerra va evitata sempre.