Il richiamo della Wilderness

Laggiù, in quella wilderness così ancestrale e immutata avremmo potuto vedere nascere e morire centinaia di culture, e sempre laggiù, avremmo potuto comprendere che ciò che ci appartiene dentro e ci fa sentire la paura, la fame e la gioia è tanto antico e fecondo quanto la natura selvaggia da cui intimamente si origina.

(Rockwell Kent, Wilderness. A Journal of Quiet Adventure in Alaska)

Quale via seguire per raggiungere la meta desiderata lungo un tratto di costa insidiata dagli iceberg? Come scegliere nel disorientante intrico di possibilità ispirando coraggio alle proprie decisioni? Tali le sfide che da sempre assillano gli umani nel difficile mestiere di vivere. Soprattutto navigando nella precaria visibilità del mondo artico. Esplorare il paesaggio che ci circonda significa sentirlo da dentro, abitandolo pure attraverso i miti e le esperienze di chi lo ha confrontato a mani nude tutti i giorni, da tempi lontani. La maggior parte di noi ha dimenticato che le terre hanno un battito intimo e che a suo modo vivono. Rivelandosi nel totale silenzio del corpo, quando allunghiamo il primo passo. Sta a noi capire come camminare con loro, scegliendo la cadenza giusta, a volte l’allungo propizio. Tutto questo ci chiama ad affinare una sensibilità nuova. Non è facile seguire la balena nell’abisso blu per entrare in uno spazio ancora inesplorato. Richiede quiete. Raccoglimento nell’ombelico del nostro essere. Ricordiamoci che laggiù ci aspetta il regno di Sedna. Una dimensione intrisa di incognita e mistero. Un luogo dove possiamo essere allo stesso tempo cacciatori e preda. Perché è da millenni che in quella profondità regna solo il selvatico. Ma grazie al canto della balena abbiamo un vago presentimento da seguire. Un cammino da fiutare. In quanto persino laggiù è possibile scoprire l’impronta di un destino che ci attende.

Nonostante la parola destino sia contaminata dall’incertezza del domani, essa è custode di un principio universale che rivela questo. Vivere con una meta è farsi un tutt’uno con il flusso della Vita. Ovunque esso ci porti. E le direzioni prese possono veramente sorprendere chiunque abbia la consapevolezza di sentirsi in cammino. Una Vita non connessa con la sua fonte vitale manca di élan – spinta in avanti –. Prima insterilisce, poi s’ammala e infine muore. Del resto, a ogni generazione le sfide sono sempre le stesse. Non riesce facile affrontare le tante violenze del mondo. Esse sono tenebra. Sguardo della Medusa che prima pietrifica e dopo incenerisce. Viste però le insidie, soprattutto in avanscoperta è bene imparentarsi alla Luce. Al suo pulsare. Aiutandosi nel faticoso vogare del mondo con la fiducia che andrà tutto bene. E allo stesso tempo, seguire l’esempio della guida inuit in un labirinto affollato di iceberg, restando sempre vigili e aperti al sottile comunicare degli elementi.

Regola d’oro per la wilderness artica: spogliarsi del non necessario.

Durante la mitica esplorazione del Kangerlua nei pressi di Ilulissat ho percorso in slitta duecento chilometri nell’arco di tre giorni. È stato un continuo saliscendi tra scarpate, valli aperte, passi, e ripide discese. Assieme a noi c’erano quattordici cani da slitta che procedevano a ventaglio avanzando nei pianori illuminati da un sole abbagliante. Correndo, mostravano le lingue al vento per dare il massimo della foga in tutta quella libertà. Intorno, l’aria e la luce riempivano i polmoni di un grandioso scenario e le terre camminavano con loro. All’improvviso, il rumore di una distante motoslitta spezzò in cacofonia quel prolungato idillio. Per fortuna, fu un diversivo temporaneo. Ripigliammo la corsa fino al passo più alto, quasi nascosto da una vetta che si ergeva vicina. Giunti al colletto non sostammo un minuto. Al contrario, infilammo subito il pendio di discesa giù a capofitto. Con le mani ben strette alla barra (e a un cordino) cominciammo a scivolare per almeno dieci minuti sfidando una gravità che non frenava abbastanza. A quel punto, la muta di cani scodinzolò volteggiando a mezz’aria nel frenetico scorrere della corsa. Tra un guizzo e l’altro, filavamo agili, a testa bassa diretti verso il fondo valle dove lentamente appariva una casetta rossa. Il nostro rifugio per la notte. La struttura sostava su di un promontorio posto di fronte a una ristretta lingua di mare ghiacciato. Super liscio e bianco vetrato.

All’arrivo, iniziò la routine del lavoro. Prima di tutto la cura dei cani, lo scarico delle sacche cargo e il parcheggio della slitta. D’altronde quegli animali se lo erano ben meritati il rancio quotidiano. A cominciare dal leader della muta. Il buon Pedro. Certo, entrati nel cubo rosso non ci attendeva il palais royal. Solo un tavolaccio, da muro e muro, che appoggiava all’altezza dell’anca, e una stufetta defilata in attesa di legna da ardere. Vicino alla finestra, invece, si trovava una tavola costruita su due assi di legno con quattro posti a sedere e qualche bustina di zucchero abbandonata in un portacenere.

Acceso il fuoco del primus, il sollievo fu istantaneo. Può sembrare incredibile che il corpo umano possa tollerare i meno 20 gradi per ore e ore. In ogni caso, l’alzarsi del termometro allo zero, portò festa ai volti. Qualche sorriso. Raggiunta una temperatura decente, sopra lo zero, cominciò il rito della svestizione. Appendemmo con cura i giacconi a dei fili di ferro che pensili attraversavano il soffitto. Sgocciolarono a ritmo alterno i pesanti ghiaccioli d’acqua rigando il pavimento d’umidore.

Sdraiato sul tavolaccio, con ai fianchi alcuni compagni, non pensavo altro che a dormire. Si sa che il freddo stanca. Sfibra. Ma Niels l’amico groenlandese ebbe la forza di scaldare un po’ d’acqua con qualche patata, una carota e del pesce. Sembra inutile dirlo, ma divorammo tutto alla sua chiamata. Nonostante la sonnolenza. Nel mezzo di quella cena semplice arrivò un intero stormo di pellegrini. Amici delle guide groenlandesi. Diverse slitte apparvero parcheggiate fuori. E ai sorrisi di chi entrava s’accompagnarono fuori gli schiamazzi dei cani. Fu così che il coro della muta si sovrappose allumano vociare.

Trangugiata la tiepida brodaglia m’infilai di nuovo al caldo sul graffiato tavolaccio che non poteva ospitare tutti. Nel frattempo, il rifugio si fece saturo di sguardi, burle e grida soffocate. Molte parole straniere. Francamente non mi preoccupai più di tanto. Avevo il mio posto al caldo. Gli altri in qualche modo ce l’avrebbero fatta. Magari stendendosi vicino alla stufetta. Tuttavia, riflettendo presi coscienza di qualcosa di primario e brutale. Di come si vivesse bene anche senza computer, cellulare, vestiti profumati, cibi gourmet e materassi ergonomici, vasca idromassaggio e post-attività ricreativa. Anzi benissimo. Sentendomi come più leggero dall’assenza di tutto quel fardello, purificato dal vento che ancora sentivo graffiare sul viso, ero grato di quel poco calore che sprigionava dalla stufa.

 Nel mezzo del sonno notturno, mi svegliai per una visita alla latrina. Che non c’era. Erano le tre del mattino e spuntava una timida luce fuori. Ma vestito il pesante giubbotto e fattomi coraggio aprii la porta. I cani erano raggomitolati uno sull’altro. Dormivano. Solo un paio di loro s’accorse della mia presenza con un occhio mezzo aperto. Erano completamente coperti di brina sul pelo. Tutt’attorno, la superficie del fiordo ghiacciato era come un volto scuro su cui si era appoggiata una striscia di luce rosa. Creava una luminosità opaca che si perdeva sulle montagne circostanti, lungo le creste, e poi oltre forando delle nuvole in direzione del corpo nudo della luna. Regnava in quel paesaggio una pace piena di silenzio. Compiuta la mia missione, malgrado il frescolino, non rientrai immediatamente. Rimasi fuori con i cani per una lunga pausa a guardare quello scenario immobile. Stranamente il freddo non mi stava torturando da capo a piedi. Mi ritrovai quindi in attesa di una sensazione che tardava a giungere. Sospeso nel tempo. Fermo in ascolto.

Destino è anche location. Attimo propizio. Essere nel luogo giusto, al momento giusto. Immersi in un flusso di emozioni poco familiari che sorprendono da dentro. Con stupore, sul petto, provai eccitazione intanto che ammiravo il sorgere del mondo. Come in un flash, intuii la natura singolare di quella circostanza. Nuna (la Madre Terra) stava assorta pregando per il risveglio. Il progressivo manifestarsi di una realtà che a ogni alba decreta il riavvio della Creazione. Non ero più solo e separato durante quello slancio estatico ma co-presente al ghiaccio, alle rocce, alle luci, agli animali, alle creature marine che insieme attendevano la miracolosa aurora. Sotto quel velo rosato si relazionava il tutto. Quasi come in un santo sacramento che celebra la lieta nascita del giorno a venire. A una tale promessa non può che partecipare la meraviglia dello sguardo. La gioia dei polmoni che respirano. Un senso di gratitudine. In quel straordinario momento, destino era stato scoprire un senso d’appartenenza a un qualcosa che è immensamente più grande di noi superando l’illusoria separatezza. Ciò che stavo vivendo mi era chiaro. L’anima artica di quel luogo si era manifestata in un tu riconoscibile.  Catturandomi. 

Rientrato al rifugio mi resi conto che mancava qualcosa. Cercai con lo sguardo gli amici groenlandesi giunti dopo il nostro arrivo. Le loro slitte erano ancora parcheggiate fuori vicino a diversi capannelli di cani sparsi un po’ ovunque. La ricerca fu vana. Non c’erano proprio. Sembravano svaniti. Intanto sul tavolaccio russavano solo corpi familiari. Mi dissi che probabilmente avevano messo una tenda da qualche parte nei dintorni. Intrufolato nel sacco a pelo, l’oblio in breve prevaricò. La mattina ci alzammo a scaglioni e piano piano si scaldarono tè e caffè. Degli ospiti ancora nessuna traccia. Una volta riempito l’ambiente di aromi gradevoli ci fu però un improvviso sbattere di stuoie, coperte e pellicce. Tre persone uscirono fuori da sotto il tavolaccio. Parevano emersi dal ventre della terra alla maniera delle talpe. Quei tre personaggi si erano creati là sotto un igloo tutto per loro, godendo persino del calore dei corpi che al piano di sopra li aveva termicamente ben isolati. Il più vispo allungò la mano verso una tazzona di caffè bollente, salutando con un sorriso ingraziante e una domanda impertinente. “Pronti a partire?” Lo ignorai. Affondando i denti nel pane imburrato, e pensando che a volte il silenzio è come oro colato. Specialmente, laggiù sul fiordo di prima mattina. Nell’assorta contemplazione dei misteri del mondo.