Il significato della parola “guerra”

Guerra dei sessi, guerra dei nervi, guerra in tribunale. Parafrasando una vecchia canzone degli Eurythmics: guerra è solo una parola.

Eppure da decenni l’Occidente ha sospeso l’espressione dal campo semantico dei pericoli globali, provvedendo ad addomesticarla ai propri salotti: guerra ai carboidrati, guerra per il telecomando, guerra allo sporco più ostinato.

Come sottolineava Roland Barthes nel saggio Saponificanti e detersivi (tratto da Miti d’oggi, Einaudi, 1957), analizzando le pubblicità dei vari prodotti – tra chi “uccide” la sporcizia, la “espelle” o “brucia” – se “i clori e le ammoniache sono senza dubbio i delegati di una specie di fuoco totale, salutare, ma cieco, le polveri al contrario sono selettive, spingono, guidano lo sporco attraverso la trama dell’oggetto, hanno una funzione di polizia, non di guerra”.

Il conflitto, sembra suggerire Barthes, ha subito uno spostamento forzato, uno slittamento dal territorio dell’eccezionalità al quotidiano per diventare azione necessaria, come un lavaggio igienizzante.

La trincea dall’Alsazia è diventata l’intersezione tra il guanciale e la federa, un campo di battaglia in cui ogni casalinga può prendere il comando. E se comunque qualche guerra negli ultimi anni è iniziata, riguarda un’altra parte del mondo, un continente poco conosciuto, una realtà visibile unicamente dagli schermi di un televisore, come un riflesso completo di ombre del Mito della caverna di Platone.

Tutto questo fino a qualche settimana fa, finché Vladimir Putin non ha invaso l’Ucraina e la parola guerra ha recuperato il suo baricentro semantico e iniziato a duplicarsi, come un processo di divisione e riproduzione cellulare, dai monitor agli smartphone, dai giornali agli appelli di soccorso.

E il pericolo, la minaccia ha ricominciato a turbare quelle che Primo Levi avrebbe descritto come le “vostre tiepide case”. Perché il vero confine di un occidentale per il rischio non è l’Unione Europea, né la nazione, ma l’uscio del pianerottolo, e un attacco a quello che è stato definito “il cuore dell’Europa” diventa non solo angosciante, ma pericolosamente reale.

Tutti i palinsesti televisivi pieni di esperti, corrispondenti dall’estero e politici, e dai social network bandierine e hashtag, emoticon di lacrime e foto, flussi di coscienza, tra azzardi di analisi geopolitiche, battute tristi e autoanalisi di terrore.

Una narrazione corale che ha sostituito facilmente le precedenti edizioni con temi che avevano il Covid e Sanremo, dimenticando spesso la vera violenza, perdita di vite umane, dignità e speranza che un conflitto comporta. Guerra lampo, manifestazioni contro la guerra, guerra chimica.

E mentre nel mondo occidentale la guerra invade ogni spazio vitale, dalle preoccupazioni agli incubi, in Russia la Duma il 4 marzo ha approvato una legge penale che vieta di riferirsi all’invasione ucraina come a una guerra, imponendo una più opportuna espressione come “un’operazione militare speciale“».

Chiunque decida di infrangere le nuove disposizioni, commettendo quello che il riformato codice penale chiama diffusione di notizie false, rischia fino a quindici anni di carcere. Una violenza psicologica sul fronte interno che si somma alla violenza dei bombardamenti nelle province occupate, generando un’ulteriore onda di indignazione in Europa e America, che alimenta il divario tra amici e nemici, buoni e cattivi, vittime e carnefici.

Ma chi ha cominciato in realtà a confondere, dissimulare e creare a proprio vantaggio un’accezione linguistica utilitaria per la parola guerra? Uso della forza, peace building, peace keeping, peace enforcement, guerra al terrore, guerra umanitaria.

La storia recente delle operazioni militari all’estero è ricca di esempi di sinonimi gentili e di cambi d’abito per la guerra, basti pensare alle azioni di forza nell’ex Jugoslavia (1992), Ruanda e Somalia (1993), Kosovo (1999), Afghanistan (2001) e Iraq (2003), tutti esempi di concessione dello sforzo bellico delle Nazioni Unite o della NATO, anche a titolo umanitario, a volte senza neanche il consenso dei Paesi interessati.

Così, lontano dal voler giustificare la repressione della libertà di parola in Russia, con la firma di Vladimir Putin, l’Occidente è così sicuro di non avere colpe nella mistificazione della guerra? Dietro la sospensione del vincolo di incitamento all’odio razziale di Facebook, grazie ai quali gli utenti potranno chiedere la morte degli “invasori russi“, non c’è la stessa violenza della Russia che si cerca di condannare? Non potrebbe essere accaduto che la Russia, da allievo, abbia superato il maestro?

L’invasione dell’Iraq è imminente nel febbraio del 2003. Mentre l’esercito statunitense inaugura una coalizione multinazionale per rovesciare il regime di Saddam Hussein, Stefano Benni su la Repubblica pubblica il racconto satirico, Cara mamma, ti scrivo dal fronte di guerra:

Ci hanno detto di non usare mai la parola guerra, locuzione antiquata e drammatizzante, ma piuttosto termini come intervento preventivo, motivi tecnici, obliterazione degli obiettivi. Anche noi soldati dobbiamo esprimere i nostri sentimenti in modo acconcio. Ad esempio non si dice ‘cagarsi addosso dalla paura’ ma ‘elaborare lo stress in modo autoreferenziale’. Quindi sono il tuo Cosimo, e mi sto autoreferenziando perché ho paura che mi obliterino“.

Qual è la differenza che intercorre tra “un’operazione militare speciale” di Putin e “un intervento preventivo” come quello pianificato da George W. Bush nel 2003? Certo, la censura con relativa condanna penale in Russia è un provvedimento più grave del mero suggerimento semantico indirizzato alla politica e ai network della guerra in Iraq, ma cosa dire della sospensione del corso di letteratura russa tenuto da Paolo Nori all’Università Bicocca, della censura ai danni del professor Alessandro Orsini per aver espresso delle tesi reputate filo-russe, dell’allontanamento di Marc Innaro come corrispondente da Mosca per la Rai, o della lista di proscrizione compilata da Gianni Riotta con identikit dei filo –putiniani in Italia, come se lo schierarsi o meno fosse uguale a un festa di compleanno, con gli amici invitati o no?

La sanzione penale voluta dalla Russia è così lontana dalla coercizione ai danni degli intellettuali italiani con una posizione distante dal pensiero governativo? Guerra è solo una parola, oppure il suo utilizzo include delle implicazioni più grandi sulla politica interna ed estera di un Paese occupante?

Come suggerisce Stefano Pietropaoli nel saggio Caesar Dominus et supra grammaticam. Il problema della definizione giuridica della guerra (tratto da Disaggregazioni, a cura di Antonio Tucci, Mimesis, 2013):

Fino al 1919 il dichiarare guerra aveva il senso di ‘mettere in chiaro’ sul piano giuridico il progetto conflittuale che si stava elaborando. La formalizzazione dello ‘stato di guerra’ comportava che i rapporti tra i belligeranti venissero regolati in termini diversi rispetto ai periodi di pace. E questo significava anche assumersi determinate responsabilità, anzitutto connesse all’osservanza delle norme che disciplinavano l’attività bellica. Se la guerra non viene più formalmente dichiarata, la situazione bellica è sempre meno definibile sul piano giuridico, sempre più caotica e prossima allo stato di eccezione permanente. E le regole della guerra sono destinate a non essere minimamente applicate. Tutto questo ha rilievo sia al livello del diritto internazionale, sia al livello delle norme nazionali“.

Inoltre: “Se nessuno ‘dichiara’ più la guerra è perché ricorrere ad essa è illecito sul piano giuridico e sempre meno giustificabile davanti all’opinione pubblica“.

Dal punto di vista giuridico “lo stato di eccezione permanente” è un fattore determinante per l’introduzione di leggi come la riforma della legge penale in Russia, proprio perché votate all’interventismo di un livello emergenziale: più nell’opinione pubblica cresce la consapevolezza – alimentata spesso dai media – di una difficoltà, un imprevisto e di una necessità a cui un Paese deve far fronte, più il dissenso nei cittadini diminuisce per rimediare ai danni e a un pericolo, rinunciando a libertà fondamentali, un provvedimento provvisorio che poi diventa permanente.

Una situazione che abbiamo conosciuto in tempi recenti per la pandemia da Covid 19, con la limitazione al diritto di circolazione, anche se la sua vera radice è da ricercare in seguito agli attentati di matrice islamica. Come ricorda lo scrittore francese Alain Damasio in un’intervista per Libération firmata da Nicolas Celnik nell’aprile 2020:

Le leggi antiterrorismo, che hanno aperto, sin da Sarkozy, un continuum di drastica regressione delle nostre libertà (di comunicare senza essere rintracciati, di muoversi, di manifestare, di esprimere opinioni ritenute pericolose, ecc.), in nome di una presunta emergenza di minaccia, da allora sono state abolite? Modificate? Diciamo limitate? In nessun modo“.

Non c’è un reale confine tra la politica occidentale e quella russa in materia di azioni belliche, propaganda bilaterale che obbedisce a una legge da vaso comunicante: laddove una parte invoca una soluzione tempestiva, dettata da un’emergenza per de-nazificare una regione o rovesciare un sistema dittatoriale, l’altra parte fa forza sul tempo di guerra, e sull’uso morale del termine.

Una liquidità semantica votata all’interesse della controparte rimasta esclusa dal conflitto per rivendicare un vantaggio da cui non trarrà beneficio, specialmente in termine economico.

Così se in questi giorni migliaia di cittadini russi sono arrestati per manifestazioni di pace o semplicemente per aver “chiamato le cose con il proprio nome” – come suggeriva Rosa Luxemburg – in Europa e in America, la parola guerra continua a duplicarsi, generando condanna e paure, appelli alla violenza, fobie e disperata ricerca di sicurezza. Guerra totale, terza guerra mondiale, guerra nucleare.

Non è un caso che in queste settimane in Europa, nei motori di ricerca, si siano moltiplicate le richieste di ville con rifugi antiatomici, pillole di iodio per prevenire gli effetti delle radiazioni e scorte straordinarie di acqua e cibo.

Nonostante Vladimir Putin abbia più volte ripetuto che nessun uso della forza atomica sarebbe giustificata da parte della Russia se non da un’interferenza militare della NATO nel conflitto ucraino, i media occidentali continuano a chiedere ad esperti, parlare degli effetti di fallout, e condividere simulazioni di attacchi nucleari sulle principali città.

Come se la risposta ad un attacco atomico non sia una resa alla distruzione inesorabile del pianeta e uno scenario degno di The Day After – Il giorno dopo, serie del 1983, diretta da Nicholas Meyer.

Come se cercare una via della negoziazione diplomatica sia più difficile che prepararsi a uno scenario apocalittico. Specialmente quando tutti dicono di volere la pace e nessuno trova il modo di costruirla.

Un allarme che sembra lanciare un monito ben distinto: diffidate dai venditori di pace, perché sono quelli più inclini a pensare ad una soluzione di violenza. E mentre il mondo delle “vostre tiepide case” è messo a repentaglio, le voci dissenzienti sono messe a tacere sull’operato dei governi e cresce il terrore.

La guerra si prepara nelle menti e nei sogni prima che accada, come insegnava Shirley Jackson. E il terrore è un sentimento ben analizzato da Joanna Bourke, autrice del saggio Paura – Una storia culturale (Editori Laterza, 2005). Come spiega la storica inglese, durante degli esperimenti sociali – come quello a New York e Philadelphia del 1958, mostrando dei disegni che avevano come oggetto la guerra nucleare – “la gente spaventata tendeva semplicemente ad ‘arrendersi passivamente di fronte alle situazioni che suscitavano timori’ anziché mobilitarsi contro il male“, così come nei manuali dell’epoca era “la priorità della sicurezza sulle libertà il tema principale tra i consigli dispensati“.

Il conformismo era di primaria importanza. Le ‘persone distruttive’ dovevano essere identificate e neutralizzate prima che diventassero ‘importune’, si mettessero ad agire “alle spalle”, scatenando il caos tra le altre persone“.

Secondo l’Ufficio della protezione civile della California, non solo in una situazione di emergenza “l’anticonformismo era un comportamento socialmente irresponsabile”, ma soprattutto “la libertà di parola era demonizzata”, messa sullo stesso piano di “diffusione di voci e dicerie”. Un concetto che forse Hannah Arendt avrebbe riassunto nella definizione di “atomizzazione sociale” (Sulla violenza, Guanda, 1970):

Ogni tipo di opposizione organizzata deve scomparire prima che tutta la forza del terrore possa scatenarsi“.

Non è ancora il punto di non ritorno, a dispetto di quanto gli analisti e gli scienziati del Doomsday Clock vogliono far credere.

C’è ancora il potere di far alzare una voce discorde, lontana dalla propaganda delle due parti, tra chi gioca a fare la guerra e chi a prepararla, un’opinione che invochi il cessate il fuoco, il ritorno a un tavolo di trattative rispettoso, senza i toni di reciproca accusa, un riconoscimento delle ragioni storiche, sia di sicurezza, ma anche di interesse economico e di indipendenza nazionale, un’idea che riporti l’attenzione su quante vite umane si stiano perdendo e di quanti pericoli si stiano correndo, mentre la diplomazia stenta a trovare un canale di comunicazione.

Perché lontano dalle propagande, dai timori e dalle sanzioni, è un intero modello di mondo con le sue relazioni, cultura e scambio reciproco che sta morendo, al quale nessuno si sta opponendo.

Guerra non è solo una parola, ed è quella che sta mettendo a repentaglio tutto questo. E anche se distanti, in questo momento ognuno sarebbe d’accordo sulle parole cantate da Edwin Starr:

Guerra/A cosa serve?/Assolutamente a niente“.