Francesco Vezzoli rimette sul piedistallo (che merita) l’artista Leonor Fini

Se si ritorna a parlare di Leonor Fini, una delle artiste italiane più importanti – e più dimenticate – del secolo scorso (è morta quasi novantenne nel 1996), è grazie a Francesco Vezzoli che le ha dedicato la sua nuova mostra: Italian Fury (Fino al 25 giugno alla galleria Tommaso Calabro di Milano), titolo che riprende la definizione di “furia italiana”, appunto, che il pittore e scultore Max Ernst, collega e amico di Leonor, aveva coniato per lei.

Italian Fury di Francesco Vezzoli (2022)

Nata il 30 agosto del 1907 a Buenos Aires, o almeno questa è una delle ipotesi più accreditate, perché Fini, nel suo gioco di travestimenti che caratterizzò tutta la sua vita e la sua arte, pare avesse fatto falsificare i suoi documenti, non fa in tempo a fermare un’immagine della sua esistenza in Argentina perché a un anno si trova già a Trieste. La città dove la madre, Malvina Braun, torna lasciandosi alle spalle un matrimonio, per usare un eufemismo, poco azzeccato.

Non proprio una fuga disperata perché la famiglia dal lato materno è benestante e più che introdotta negli ambienti che contano. Leonor, frequenta fin da bambina artisti e scrittori come Italo Svevo (e sua moglie Livia) e Umberto Saba e viaggia con la madre che la porta con sé a visitare musei e pinacoteche.

Non è una sorpresa, dunque, che scopra fin da subito la sua passione per l’arte: il disegno ma anche il teatro (da piccola, ricorderà, metteva in scena spettacoli con le bambole).

Dal 1927 la sua carriera d’artista è tutta in ascesa. Soprattutto all’estero: a Parigi dove si divide tra la “combricola” dei surrealisti senza mai entrarne a far parte a pieno titolo (Trovava André Breton, capo carismatico del gruppo, opprimente e misogino) e quella della moda.

Un disegno di Leonor Fini realizzato nel 1947

È Christian Dior a presentarle Elsa Sciaparelli, con la quale crea un forte legame. La stilista le presta abiti sontuosi per le sue apparizioni pubbliche e, nel 1937, le commissiona il design della boccetta del suo profumo Shocking, un busto in vetro per il quale si ispira alle forme dell’attrice Mae West.

Il suo successo è tale che si dice – chissà se è vero – che a un certo punto i suoi quadri pieni di gatti, sfingi, donne-fiore, dame medievali, amazzoni, fate e diavoli, scheletri, e maschi androgini e subalterni, andassero più a ruba di quelle di Picasso.

Il dipinto di Leonor Fini “Le Retour des absents”, del 1965

Di certo Leonor si dedica con pari impegno alla sua arte – oltre ai dipinti, le illustrazioni (per una cinquantina di libri di autori che ama come Jean Genet, Baudelaire e il Marchese De Sade), i costumi e le scenografie per spettacoli teatrali, romanzi – come alla definizione della propria immagine.

Si fa ritrarre da grandi fotografi come Henri Cartier-Bresson, in pose da diva o da femme fatale, coperta di abiti e parrucche elaborate o con niente addosso. E parecchia energia dedica anche al privato tra relazioni che si consumano come brevi fiammate e altre che durano tutta la vita. Altre al plurale, perché negli anni Quaranta, a Parigi, inizia un sereno ménage à trois con il console Stanislao Lepri e lo scrittore polacco Costantin Jelenski che durerà fino alla morte dei due.

Viene facile pensare che Leonor Fini negli utili decenni della sua vita sia stata dimenticata – soprattutto in Italia, dove i critici d’arte la consideravano un personaggio da rotocalchi più che un artista – in quanto donna.

E non è un caso che alla Biennale d’arte di Venezia, guidata quest’anno da Cecilia Alemani e programmaticamente pensata per dare risalto alle donne dell’arte, in una delle “capsule del tempo” che ri-declinano al femminile una storia dell’arte troppo testosteronica – ci sia anche lei .

Ma, probabilmente, ha ragione Vezzoli che considera la damnatio memoriae nei confronti della Fini “inspiegabile”: “Fino a un certo punto è stata un’artista quotata, rispettata, che frequentava, possiamo dire, le ‘giuste avanguardie’. Nel periodo in cui visse a Roma ritrasse Elsa Morante, Alida Valli, Luchino Visconti, tutti nomi che stavano dalla parte politica giusta. Inoltre, con la sua libertà sessuale, aveva anticipato le conquiste del movimento femminista”, riflette.

“Ma, probabilmente, Leonor Fini non era abbastanza femminista per gli anni Settanta o quanto meno, non incarnava la politically correctness del femminismo di quel periodo”.

E conclude: “L’unica cosa che m’interessa è che oggi i prezzi delle sue opere tornino a salire, visto che in questo momento il valore dell’arte si misura solo in denaro. Fini è stata l’artista italiana del Novecento che ha avuto più riconoscimenti all’estero. Cancelliamo la damnatio memoriae e ridiamole il piedistallo che si merita”.