Larry Kramer: un cuore in lotta

L’America ama cotonarsi i capelli e mostrare sorrisi da copertina di Harrison Ford, perché seppure ha perso lucentezza con l’amministrazione Carter, la terra dove tutto è possibile ci tiene a rifarsi il trucco e a rientrare in pista. È giugno 1981. Kim Carnes è in cima alle classifiche con Bette Davis Eyes, Steven Spielberg firma I predatori dell’arca perduta, il primo episodio di Indiana Jones, e il mandato presidenziale di Ronald Reagan è cominciato da pochi mesi. Il nuovo corso repubblicano, con tagli alla spesa pubblica e meno tasse, politica internazionale aggressiva, risorgimento della middle class e famiglia tradizionale come canone, per il momento è solo un programma annunciato, eppure qualcosa è già cambiato: «la rivoluzione conservatrice» risveglia nella mente degli americani un istinto di protezione: ritorno alla religione, paura e cittadinanza di serie b per minoranze etniche e omosessuali. Se dopo i moti di Stonewall «i gay hanno perduto quel loro sguardo ferito» come proclamava Allen Ginsberg, e Harvey Milk nel 1977 è stato il primo supervisor eletto a San Francisco dichiaratamente omosessuale, la strada per il riconoscimento dei diritti fondamentali, la sconfitta del pregiudizio e il coinvolgimento dell’opinione pubblica è ancora lunga e piena di ostacoli, soprattutto in quei giorni del 1981, quando i Centers for Disease Control and Prevention – agenzia federale del Dipartimento della salute – di Atlanta cominciano ad occuparsi di una strana epidemia. I rapporti che provengono da Los Angeles, a cura dell’equipe del dottor Michael Gottlieb, parlano di cinque casi di Pneumocystis carinii, un parassita polmonare, in pazienti che presentano gravi alterazioni dell’equilibrio immunitario. Da New York la situazione è diversa: il dottor Alvin Friedman-Kien ha riscontrato ventisei casi di disfunzione immunitaria e sarcoma Kaposi, un tumore raro della pelle, che secondo i dati colpisce due persone su tre milioni. Ci sono decessi, dal Pacifico all’Atlantico, e quello che colpisce l’epidemiologo James W. Curran ad Atlanta è che normalmente il Pneumocystis c. interessa bambini di due o tre mesi, con un sistema immunitario non ancora forte, mentre il Kaposi colpisce persone sopra i cinquant’anni e questi hanno un’aspettativa di vita che va dai dieci ai quindici. In questi casi il decorso della malattia è rapidissimo, quindici mesi, e i pazienti sono tutti giovani, sopra i trent’anni, tutti omosessuali.

Cosa determina il collasso del sistema di difesa del corpo per lasciarlo in balìa di infezioni, tbc, virus e ascessi cerebrali? Che collegamento può esserci tra malattie veneree, uso del popper e i livelli bassi di linfociti T? A cosa dare la colpa, dove cercare l’origine e soprattutto come curare laddove anche la chemioterapia non fa il minimo effetto? Se il bollettino del 5 giugno dei Centers for Disease Control and Prevention non aveva destato particolare interesse né preoccupazione, con le morti e i contagi che crescono, il 3 luglio 1981 è il New York Times il primo quotidiano nazionale a interessarsi e prendere parola (in Italia bisognerà attendere il 1983 e un articolo su Frigidaire n.27 Cancer Gay, di Paolo Borgi) ; un breve articolo, firmato dal medico e giornalista Lawrence K. Altman, dal titolo: Tumore raro osservato in 41 omosessuali – si sta verificando un’epidemia tra uomini da New York alla California. Otto morti. Il tumore raro che presto diventerà impropriamente – e con il solo ed unico scopo di stigmatizzare socialmente la comunità omosessuale –  cancro o piaga dei gay, classificato in un primo momento come Gay-related immune deficiency, o GRID, è l’AIDS. Gli scienziati lontani dal voler parlare di contagio, anche semplicemente per non ammettere un totale smarrimento su cause e soluzioni, si preoccupano di avvisare la comunità omosessuale delle città interessate a prestare attenzione e a mettersi immediatamente in contatto con un medico nel caso comincino ad affiorare sulla pelle macchie rossastre e lesioni, tipiche del sarcoma Kaposi.

A Manhattan il terrore nella comunità gay c’è, ma è anche difficile rinunciare al sesso e praticare l’astinenza. Se per secoli avevano dominato la paura del corpo e del piacere, con la rivoluzione sessuale degli anni settanta il mondo si è rovesciato e finalmente anche la comunità gay ha conquistato la propria libertà di mostrarsi alla società che l’aveva sempre condannata: incontri di una notte nei parcheggi, saune e discoteche. A New York, così come a Los Angeles, se sei gay nel 1981, non hai paura di mostrarti per quello che sei né di cercare l’amore di un giorno o della vita in tutti gli angoli della città. Senza uno studio che confermi l’origine dell’epidemia legata a un virus, sono in molti a decidere nei primi anni di non cambiare stile di vita, ma non tutti la pensano così. «A quelli di noi che c’erano dall’inizio e che non dicevano di rinunciare completamente al sesso, ma semplicemente di stare attenti, è toccato diventare i paria in un mondo che era costituto da paria; è stato molto difficile per me, personalmente, superare tutto questo: avere letteralmente delle persone che attraversavano la strada pur di non salutarmi. Quelli sono stati anni che mi hanno profondamente cambiato». Parla da sopravvissuto, in un incontro con Jonathan Katz nel 2011, Larry Kramer, attivista, sceneggiatore – candidato agli Oscar nel 1969 per la miglior sceneggiatura non originale, tratta da un romanzo di David H. Lawrence, Donne in amore di Ken Russell – e scrittore «di una grande storia che nessuno o poche altre persone volevano scrivere e ancora oggi pochi vogliono scrivere; ero come un corrispondente dall’estero paracadutato oltre le linee nemiche e che vede quale grande storia gli sia capitata da raccontare». Dopo aver messo da parte il cinema negli anni settanta, si dedica completamente al teatro, uno spazio che gli offre la possibilità di poter palare più apertamente di omosessualità, ma è grazie al New York Native, il bisettimanale più importante della comunità gay, che Larry Kramer diventa l’Omero dell’epidemia di AIDS. Come scriverà Michael Specter per il New Yorker nel 2002 sul suo famoso articolo del 1983 1.112 and counting, il suo è «un messaggio di cinquemila parole che accusava quasi tutti coloro che hanno a che fare con l’assistenza sanitaria in America: funzionari dei Centers for Disease Control, ad Atlanta, ricercatori del National Institutes of Health, a Washington, medici al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center, a Manhattan, e politici locali (in particolare il sindaco Ed Koch) di rifiutarsi di riconoscere le implicazioni della nascente epidemia di AIDS». E Kramer non risparmia critiche anche agli uomini gay di Manhattan: la loro inerzia nell’ignorare la malattia che si sta diffondendo rapidamente in tutti gli Stati Uniti, un’indifferenza che sottolinea l’esigenza di continuare a vivere, sperando che l’emergenza passi da sé.

«Sono stufo dei dottori gay non dichiarati che non usciranno allo scoperto per aiutarci a combattere per rettificare tutto ciò di cui sto scrivendo. Medici che hanno un enorme potere, in particolare quando combattono in gruppo. Riuscite a immaginare cosa potrebbero realizzare i medici gay, uniti in una rete, facendo petizioni ai governi locali e federali, ai colleghi eterosessuali e all’American Medical Association? Sono stufo della passività, della non partecipazione o della timida protesta di tutte le associazioni mediche gay (American Physicians for Human Rights, Bay Area Physicians for Human Rights, Gay Psychiatrists of New York, ecc., ecc.), e in particolare la nostra New York Physicians for Human Rights, un gruppo di 175 dei nostri medici gay che, come gruppo, non hanno fatto nulla. Puoi contare su una mano il numero dei nostri medici che hanno davvero lavorato per noi.

Sono stufo di Advocate, una delle più grandi pubblicazioni gay di questo paese, che deve ancora riconoscere che sta succedendo qualcosa. Il recente numero di quel giornale sull’AIDS era così innocuo che avresti pensato che tutto ciò che stavamo attraversando fosse poco peggio di una rabbia dell’ultima influenza del designer. E il loro editore associato, Brent Harris, è morto di AIDS. Capitelo.

Sono stufo degli uomini gay che non sosterranno gli enti di beneficenza gay. Andate a dare i vostri soldi a enti di beneficenza etero, ragazzi, mentre noi moriamo.

Sono stufo dei gay non dichiarati. È il 1983, ragazzi, quando uscirete allo scoperto? Entro il 1984 potreste essere morti. Ogni uomo gay che non è in grado di farsi avanti ora e lottare per salvare la propria vita sta davvero aiutando a uccidere il resto di noi. C’è solo una cosa che salverà alcuni di noi, e sono i numeri e la pressione e il nostro essere percepiti come uniti e una minaccia. Mentre sempre più miei amici muoiono, provo sempre meno simpatia per gli uomini che temono che le loro mamme lo scoprano o che temono che i loro capi lo scoprano o che temono che lo scoprano i loro colleghi medici o colleghi di lavoro. A meno che non possiamo generare, visibilmente, numeri, masse, moriremo.

Sono stufo di tutti coloro che in questa comunità mi dicono di smetterla di creare panico. Quanti di noi devono morire prima che vi spaventiate a morte e entriate in azione? Non bastano 195 newyorkesi morti? Ogni persona etero che è a conoscenza dell’epidemia di AIDS non può capire perché gli uomini gay non stiano marciando sulla Casa Bianca. Più e più volte sento da loro: Perché non state facendo niente? Tutti i politici con cui ho parlato mi hanno detto in confidenza: Voi ragazzi non state facendo abbastanza rumore. La burocrazia risponde solo alle pressioni».

Larry Kramer non ha paura di schierarsi, non teme le ripercussioni e i pregiudizi, non ha timore reverenziale rispetto ai politici né di isolarsi dalla sua comunità: come un Cyrano aspetta solo il prossimo nemico per battersi, in nome della verità e per proteggere i malati, i pazienti più indigenti e senza assicurazione sanitaria, lasciati completamente a loro stessi. Non ha paura del sindaco di New York, Ed Koch, che non ha riserve per descriverlo come un assassino visto che nega ogni possibilità alle associazioni per un confronto sull’emergenza; non ha paura di Ronald Reagan, che nonostante le richieste di prendere posizione e attivare dei fondi di investimento per la ricerca, preferisce il completo silenzio: del resto se a morire continuano a essere omosessuali, poveri, drogati, carcerati e prostitute – considerati in un primo momento gli unici appartenenti alla categoria di rischio –  per il presidente degli Stati Uniti non si tratta di una emergenza nazionale. Non è un caso che proprio in quel periodo girasse una barzelletta con protagonista il leader repubblicano nella sala ovale: «Signor Presidente, c’è una nuova malattia che si sta diffondendo come un incendio in tutto il paese e che sta uccidendo le minoranze, i tossicodipendenti e gli omosessuali.» «Davvero? Allora tenetemi informato nel caso in cui diventasse un problema». Non ha paura nemmeno di essere cacciato fuori dall’associazione che aveva contribuire a fondare, Gay Men’s Health Crisis (GMHC), per le scelte radicali, le continue polemiche che innesca nei dibattiti pubblici e tramite gli articoli di giornale. Del resto Kramer è abituato al conflitto con la comunità dai tempi dell’uscita del suo romanzo Faggots (1978), un ritratto ironico dello stile di vita gay su Fire Island, poco distante da New York, in una continua ricerca di festa e divertimento che dura per un intero weekend. Tra sesso di gruppo, droghe e ricerca di amore, il romanzo viene stroncato dal Washington Post e dal New York Times e ritirato dagli scaffali dell’unica libreria gay di Manhattan, la Oscar Wilde Memorial Bookstore, ma per il successo commerciale non andrà mai fuori stampa. Per gli eterosessuali Kramer è un depravato, per gli omosessuali un traditore, un conservatore reazionario. Sono questi primi anni del contagio, fino al 1984, e l’inarrestabile isolamento, i protagonisti del lavoro teatrale più celebre di Kramer, The normal heart, che poi diventerà nel 2014 un film prodotto da HBO con Mark Ruffalo, Julia Roberts e Joe Mantello. Ma è proprio la lontananza e indipendenza dello scrittore, sia di pensiero che di azione, che gli permette di proseguire la battaglia contro l’AIDS e ricevere i primi successi con un nuovo gruppo militante, sempre da lui fondato: Act up (AIDS Coalition to Unleash Power). I suoi manifestanti si sdraiano a terra nell’orario di punta impedendo il traffico – come a Wall Street, il 24 marzo 1987 –, installano un preservativo gigante sulla casa del senatore conservatore Jesse Helms, spargono le ceneri delle vittime dell’AIDS sul prato della Casa Bianca, denunciano i prezzi esorbitanti del farmaco AZT, l’unico approvato dall’FDA, e che qualche tempo dopo si rivelerà completamente inutile per le terapie, ma soprattutto condannano la politica omofoba statunitense e la reiterata gestione inconcludente della crisi sanitaria. Questo periodo è narrato fedelmente dal documentario della HBO Love and anger, completamente dedicato alla vita dello scrittore.

È negli anni novanta che Larry Kramer scopre di essere sieropositivo, ma il peggioramento delle sue condizioni, così come il trapianto di fegato del 2001 – il primo per un sieropositivo negli Stati Uniti – non gli impedisce di continuare a lavorare, organizzare raccolte fondi, battersi e allestire incontri pubblici su quella che è diventata ormai una pandemia. Muore a ottantaquattro anni per polmonite a New York il 27 maggio 2020, proprio mentre un’altra pandemia, Covid 19, si è affacciata sul mondo. Anche gli antichi avversari, tra tutti Anthony Fauci –  immunologo, a lungo direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases e Consigliere medico capo del presidente per il mandato di Donald Trump –  non hanno mancato di sottolineare l’aiuto fondamentale dello scrittore a vedere come la burocrazia federale negli anni ottanta stesse davvero rallentando la ricerca di cure efficaci, un ruolo essenziale nello sviluppo di regimi farmacologici elaborati per prolungare la vita delle persone infette dall’HIV, ma soprattutto non hanno potuto non definirlo un «cuore d’oro», lo stesso che Larry Kramer pretendeva fosse semplicemente un cuore normale.