Nessun elicottero sul tetto dell’Afghanistan

L’8 di luglio, con il ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan ormai più che avviato, il presidente Biden ha affrontato i giornalisti americani. Si è infuriato quando qualcuno gli ha chiesto se l’uscita da Kabul di questo 2021 poteva essere in qualche modo paragonata alla fuga da Saigon del 30 aprile 1975. Biden ha avuto buon gioco nel dire di no, sottolineando che “questa volta non ci sarà nessun elicottero sul tetto”, riferendosi alla famosissima immagine degli ultimi americani e sudvietnamiti che lasciavano l’ambasciata prima dell’arrivo dei vietcong. Forse sulla spinta dell’emozione, Biden ha aggiunto: “Abbiamo smantellato Al Qaeda e ucciso Osama bin-Laden, la nostra missione è compiuta. Abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi per cui eravamo entrati nel Paese. Non siamo andati in Afghanistan per ricostruire il Paese, decidere quale sarà il suo futuro è diritto e responsabilità esclusiva del popolo afghano”.

La domanda davvero cattiva, e “giusta”, sarebbe stata un’altra. Il “missione compiuta” di Biden somiglia, drammaticamente e tristemente, al “missione compiuta” pronunciato da George Bush il 1° maggio del 2003 a bordo della portaerei “Abraham Lincoln”, pochi giorni dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq. La dichiarazione di Bush aprì per l’Iraq una stagione di violenze inaudita persino per il Medio Oriente, paragonabile per dimensione e atrocità forse solo all’irruzione dei mongoli e alla presa di Baghdad del 1258.

Quella di Biden è segnata da una clamorosa bugia: come si può seriamente sostenere vent’anni di guerra, occupazione militare, investimenti nel settore civile, battaglie anche nobili e condivisibili (per esempio, quella per l’istruzione delle ragazze), evidenti manovre per influenzare il quadro politico locale non abbiano anche avuto l’ambizione di costruire un Afghanistan “altro” rispetto a quello ridotto in macerie dalla guerra civile che, tra il 1994 e il 2001, i talebani dominarono con la forza delle armi, del fanatismo religioso e dell’appoggio di Pakistan e Arabia Saudita, e che chi scrive queste righe poté vedere di persona? Di questa bugia Biden è stato non solo portatore ma anche costruttore. Perché era lui il vice di Barack Obama all’epoca del “surge” (2009), quando la Casa Bianca in pochi mesi fece salire il numero dei soldati Usa da 30 mila a più di 100 mila. Ora, con il vice diventato capo, assistiamo a questo spettacolo: i talebani da un lato trattano con il Governo afghano legittimo a Doha (Qatar) mentre in Afghanistan ne ammazzano i soldati; e gli Usa, che sempre a Doha hanno a lungo trattato con i talebani, ora li bombardano nella speranza di frenare la loro occupazione del Paese.

In realtà, il fallimento afghano non si capisce fino in fondo se non viene collegato al fallimento iracheno. L’una e l’altra spedizione erano motivate dalla “war on terror” (la guerra al terrorismo) lanciata da Bush dopo gli attentati delle Torri Gemelle. Ma le vittime del terrorismo islamista sono continuate a crescere per almeno un decennio, e non solo in Medio Oriente. Il Watson Institute della Brown University di Providence (Usa), ha valutato in 6,4 trilioni di dollari il costo complessivo delle due guerre per i soli Stati Uniti (per l’Italia, secondo le stime più accreditate, circa 7 miliardi di euro): il solo Pentagono, cioè il ministero della Difesa, ha stanziato per i conflitti 1.959 miliardi di dollari (cifra che equivale più o meno all’intero debito pubblico italiano) e i consumatori americani hanno versato mille miliardi di tasse in più per coprire il buco. Gli Usa hanno perso 7.057 uomini nelle guerre post 11 settembre (in Afghanistan l’Italia ha perso 53 uomini) e più di 30 mila soldati e veterani impegnati in quelle campagne si sono suicidati.

Vittime, civili e non: per l’Afghanistan le diverse stime parlano di almeno 150 mila persone, con almeno 60 mila talebani e miliziani e quasi 10 mila soldati governativi uccisi in battaglia; per l’Iraq si va da 1.221.000 morti dell’Opinion Research Survey ai 150 mila del ministero della Sanità iracheno, oltre ai 40 mila soldati e ai 50 mila miliziani e terroristi caduti sul campo. Il risultato finale, in entrambi i casi, è stato la destabilizzazione sanguinaria di vastissime regioni, con l’unica prospettiva concreta di un ritorno al passato: in Iraq passando dalla dominazione dei sunniti guidati da Saddam Hussein a quella degli sciiti di fedeltà filo-iraniana, in Afghanistan addirittura ritornando, come ormai tutti prevedono, agli stessi talebani, appena rivisti e corretti, che si volevano eliminare nel 2001.

In più, restando all’Afghanistan, c’è tutta una serie di insidiosi fenomeni collaterali che andranno pesati e gestiti nel prossimo futuro. Per esempio la prepotente rinascita della coltivazione del papavero e del traffico di oppio, che costituisce già oggi il 30% del prodotto interno lordo del Paese e che ovviamente va ad alimentare non solo le varie forme di illegalità ma anche la potenza finanziaria dei talebani e dei miliziani di. Ogni estrazione, spesso indistinguibili dai puri e semplici trafficanti. O, per fare un altro esempio, il riassetto degli equilibri internazionali, che potrebbe non essere facilissimo. Come reagiranno alla seconda presa di potere dei talebani Paesi come Pakistan e Arabia Saudita, che vent’anni fa erano i grandi sponsor politici (gli unici due Governi a riconoscere ufficialmente il Governo degli islamisti) e finanziari del regime degli “studenti islamici”, con relativo terrorismo? E come si comporteranno i grandi Paesi che hanno interessi strategici nell’area? Gli Usa lasciano l’Afghanistan ma già annunciano di volersi fermare nei dintorni, con armi (soprattutto) e bagagli. Non si sa mai. Recep Tayyep Erdogan, leader della Turchia, si è detto pronto a subentrare agli americani, soprattutto nel controllo dell’aeroporto di Kabul, e ha aggiunto che non sarà difficile intendersi coi talebani in nome della comune religione islamica. La Russia ha già mobilitato la 201° divisione di stanza in Tagikistan e ha fatto sapere che qualunque sconfinamento nei Paesi che interessano a Mosca (Tagikistan, appunto, ma anche Turkmenistan e Uzbekistan) sarà punito con la forza. L’uscita dall’Afghanistan rischia di diventare un puro e semplice trasferimento degli stessi problemi e delle stesse tensioni in una regione ancor più ampia e delicata.

In fondo a questi venti e disastrosi anni afghani, sarebbe bello almeno sperare che i grandi della Terra riescano ad assimilare e metabolizzare le lezioni ricevute. Ma anche questa, per essere sinceri, è una speranza fragile. Perché nel frattempo sono arrivate la Siria e la Libia a dirci che di sistemi, di fronte a certi problemi, ne conosciamo uno solo. Che non funziona.