Piccole storie sul palcoscenico del manicomio umano

È un universo popolato da Hitler nelle tavole calde, goblin che vivono nelle soffitte, ma anche amuleti, denti di lupo, unguenti. Perché il mondo, per Isaac Bashevis Singer, resta sempre una terra di demoni.

Un luogo che, lontano dalla perfezione del divino, ospita in sé le deformazioni del sovrannaturale e soprattutto dell’umano: solitudini e preconcetti, ritorsioni e piccole vendette. “Nell’attimo stesso in cui la Luce Infinita si attenuò e si offuscò, ed ebbe inizio la Creazione, nacque la follia. I demoni sono tutti folli. Nemmeno gli angeli sono completamente sani. Il mondo della materia e delle azioni è un manicomio”.

Isaac Bashevis Singer

Anche per questo, nella lunga carriera da scrittore, cominciata in Polonia, finita negli Stati Uniti e premiata con un Nobel nel 1978, Singer non rinuncerà mai a scrivere in yiddish. Al contrario della lingua sacra, l’ebraico, che compone le sacre scritture, l’idioma, nato da una fusione con il tedesco e le lingue slave, porta sempre con sé le spaccature culturali, l’imperfezione e le contraddizioni di un popolo, ma anche di tutto il genere umano.

È l’ironica e tragica quintessenza della letteratura yiddish – scrive Claudio Magris – che nella narrativa di Singer risorge a prodigiosa fioritura, una poesia che torna dai regni della morte con incredibile capacità epica di dire la vita – le passioni i desideri gli smarrimenti i gesti i colori i sapori, l’intensità sensuale e metafisica della vita”.

Per ricucire le fratture del mondo ebraico ed occidentale, frammenti di narrazioni con scenografie ed epoche diverse, Singer si affida alle raccolte di racconti, come nel caso de Un amico di Kafka, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1974 da Longanesi ed edito nuovamente da Adelphi (2022 con la traduzione di Katia Bagnoli, pp. 338).

Un talento nato intorno alla stufa grazie all’intercessione del padre – Icek-Hersz Zynger, rabbino chassidico – quello di saper raccontare le storie. Nello spazio più breve di un romanzo, Singer intercetta il rumore delle strade, la spontaneità dialogica dei personaggi e soprattutto l’intero mondo che li circonda.

Perché ciò che resta, come sotto traccia nelle trame dello scrittore yiddish, è tutto quello che va al di là del visibile per diventare allegoria, una vera e propria haggadah di tradizione rabbinica: un misto di folclore e aneddoti, esortazioni spirituali e morali.

Una saggezza tramandata in racconti che sopravvive al popolo ebraico e alle sue diaspore. Fonte di ispirazione imprescindibile anche per la stand-up comedy che va ad affermarsi con Woody Allen e Lenny Bruce. Per Singer non c’è differenza tra lo scegliere un’ambientazione da shtetl orientale, Varsavia e i suoi circoli culturali, o le affollate strade di New York.

Sembra suggerirci lo scrittore: finché il mondo andrà avanti con un pubblico a testimoniarlo, ci sarà sempre un racconto di qualcuno disposto a confrontarsi con i suoi demoni. E per il popolo ebraico, soprattutto dopo il dramma della Shoah, di demoni ce ne sono molti, come nel racconto L’istruttore, in cui Singer narra il suo primo viaggio in Israele. Seguendo la guida veloce di Friedl, molto simile a quella di Vittorio Gassman ne Il sorpasso, Singer attraversa l’intera nazione in un itinerario che va da Tel Aviv ai kibbutz, ascoltando le confessioni e i timori dell’amica.

Un lungo monologo che analizza i contrasti e le incoerenze degli ebrei moderni, l’impostazione reazionaria e la fiducia nel progressismo, la disputa sulla vita dopo la morte ma restando convinti della sua assenza, e soprattutto si interroga su “un popolo che predica la rivoluzione e al tempo stesso vuole per sé tutti i privilegi del capitalismo. Si propone di distruggere il nazionalismo negli altri, ma si vanta di appartenere al popolo eletto. Come può una simile tribù esistere in mezzo agli stranieri?”.

Una continua ricerca del confine tra sé e la propria antitesi, resa possibile da quella che anche Abraham Yehoshua rimproverava ad Israele come eccesso di memoria: “Gli ebrei ricordano troppo – scrive Singer nel racconto Un amico di KafkaÈ la nostra disgrazia. Sono duemila anni che ci hanno cacciati dalla Terra Santa e adesso cerchiamo di tornarci. Folle, no?”.

È un’eterna sessione di stand-up comedy Un amico di Kafka, un palco sempre disponibile in cui tutta l’umanità, anche quella più dimenticata e disperata – come il professore con i suoi fedeli piccioni, o le vedove, vittime della solitudine –  possono prendere parola e raccontarsi.

Singer si presta a essere posseduto dai demoni e diventare narrazione per gli altri. Un Dybbuk, come amava definirsi egli stesso, questo è uno scrittore yiddish: “Uno spettro, uno che vede ma non è veduto”.