Uno più grandi scrittori americani meno conosciuti

“Autentico”, secondo una delle definizioni Treccani: “vero, genuino, schietto”. L’uomo autentico (così è stato tradotto il titolo originale The ideal, genuine man) è esattamente questo.

La storia di Herman Marshall, una persona “vera”, non un eroe, non un dannato. Uno che da ragazzo a scacchi se la cavava bene e che – come tanti – pensava lo aspettasse un futuro speciale, nonostante il cruccio di possedere due “labbra da negro”.

Ma gli anni sono passati, la Depressione, l’amore e la guerra hanno cambiato le sue prospettive. Oggi è un anziano ex camionista che vive a Houston, in Texas, e qui affronta la lunga agonia e quindi la morte della moglie. Una storia americana nella sua veste più prosciugata, senza orpelli né magniloquenza. Almeno fino all’ultimo atto.

Il primo a scoprire il libro è stato Stephen King, che lo ha pubblicato nel 1987 con la sua Philtrum Press. L’autore è Don Robertson: uno che “corre il rischio di essere uno dei più grandi scrittori meno conosciuti degli Stati Uniti”, come scrive nell’appassionata introduzione lo stesso King.

Ci si potrebbe interrogare su come mai il Re della fantasia horror sia stato così conquistato da un racconto ancorato all’assoluto realismo, di luoghi e di persone. In realtà, in quella seconda metà degli anni Ottanta in cui pubblicava It e Misery, Stephen dava sì sfogo a visioni di orrore a follia, ma i mondi in cui ambientava i racconti e romanzi non erano poi così lontani da quello in cui vive Herman. È l’America rurale, grandi spazi in cui piccole vite quotidiane trascorrono fra lavoro e Shiner, la birra che si accumula sui banconi dell’unico locale del circondario (La stessa raccontata in Lucky, nella foto di apertura, l’ultima interpretazione del grande attore Harry Dean Stanton).

Abitato da paesaggi accaldati e personaggi bevuti, L’uomo autentico – scrive sempre King  – “è un’opera brillante sulla vita americana e le attitudini degli americani negli ultimi anni del secolo”.

Dietro la vita quotidiana, nelle pagine, però, irrompono le urla. Quelle del dolore fisico del figlio morto giovane o di Edna, la moglie che cerca di provocare Herman affinché lui la liberi dalla sofferenza uccidendola. E le urla nel silenzio dello stesso protagonista, che – seguito da un bulimico nipote e perseguito da una vecchia ninfomane – all’assenza di senso trova infine una risposta inevitabile.

Robertson aveva poco meno di 60 anni quando pubblicò il libro. Sarebbe vissuto fino ai 70 (morì nel 1999, nel 21 marzo del suo compleanno), attraversando malattie di ogni tipo, dal diabete a due infarti, a un cancro durato a lungo. Questo probabilmente aiuta a capire la sensibilità nella descrizione della sofferenza di Edna Marshall, le osservazioni crude e talvolta ironiche sul degrado fisico sia di lei sia del marito e sul corpo agghindato nella bara con una grottesca parrucca.

Pagine che in parte possono anche ricordare alcuni frammenti di Kent Haruf, autore, però, dai testi ben più sintetici. Tuttavia, il dolore non è mai totalizzante. Da qualche parte, fra le righe, si incontra sempre un qualche sorriso. Può essere il sorriso di una donna che la fa “assomigliare a un bicchiere scheggiato”, può essere un sorriso indulgente o “una breve risatina”.

È  il “sorriso autentico” dell’uomo dalle “labbra da negro”, che trova infine la sua risposta al nulla del sogno americano.