Il mondo “saturo” e immobile di Fabrizia Ramondino

Al padre che le consigliò di diventare bibliotecaria, Fabrizia Ramondino si oppose: un fermo rifiuto per quell’avvenire da “custode di spettri e di pietre”.

Eppure, leggendo il suo romanzo autobiografico di esordio, Althénopisapparso per la prima volta nel 1981 e ripubblicato nel 2023 da Fazi Editore –, la realtà può essere inquadrata da una prospettiva diversa: rovesciò le aspettative e si smarcò da un futuro certo, ma adattandolo ai suoi desideri.

Perché non c’è pagina della scrittrice napoletana che sappia rinunciare a un inventario, catalogo e lunghi tornanti di aggettivi a cui attraccare come boe. Che siano i colori dei panni stesi al tramonto d’estate o i tagli dei cocci che i bambini amano raccogliere in spiaggia non fa differenza: oggi dettaglio custodito è registrato e al tempo stesso amplificato, fuori misura, in abbondanza e saturazione.

Tutte caratteristiche che sembrano rispecchiare il racconto e la coscienza dell’infanzia: un mondo in ripetizione, che gioca a rincorrere sé stesso esaurendosi nel nulla di fatto. Un mondo bello ma inutile, in cui l’essere non accade, semplicemente si osserva. Esattamente come il Sud, Althénopis, la vera protagonista del romanzo.

Negli anni compresi tra l’inizio del conflitto mondiale e il secondo dopoguerra, Ramondino attraversa come con una macchina da presa il territorio compreso tra la penisola sorrentina e Napoli, raccontando la quotidianità famigliare.

La reinvenzione della toponomastica

Ma alla sua memoria da bambina, che sembra non difettare o disattendere ad un esercizio di precisione, la scrittrice preferisce stravolgere l’identità dei luoghi, alterandone i nomi. Ed è così che si materializzano nei capitoli Frasca, Santa Maria del Mare, Metamunno e naturalmente Althénopis; i paesi dove abitare sono giochi di parole, soprannomi, prese in giro ma anche alchimie.

Una strategia evidente, quando Ramondino spiega il significato del termine che dà il titolo al romanzo: “Il nome della mia città natale. In origine il suo nome significava ‘occhio di vergine’. Ma pare che i tedeschi, durante l’occupazione, trovandola così imbruttita rispetto alle descrizioni di Mozart (riferite anche in una novella di Mörike) e di Goethe, le mutarono nome in Althénopis, che starebbe appunto a significare ‘occhio di vecchia’”.

Come a voler ribadire che superata la superficie, si annida sempre una sostanza non percepibile da uno sguardo disattento. E la realtà può essere manipolata da chiunque voglia, con una prova di violenza “L’Ente del Turismo infine, dietro suggerimento di un assessore, propone il seguente etimo: alt sarebbe una radice greca, da althéa, la pianta del fiore rosa…Tutto questo, se serve a turlupinare i turisti, manca però di ogni fondamento filologico”.

Donne e uomini del Sud

Per custodire al meglio la memoria, Ramondino decide di legare a doppio spago l’universo con gallerie di attributi, elenchi di attrezzeria e descrizioni di fremiti notturni. Un mondo sospeso in un eterno vacuum bellis, una stagione dominata da bambini e anziani, creature fuori dal tempo che non sono destinate a far accadere le cose, ma ad assistervi.

Anche per questo Althénopis riporta una rigida ripartizione di classe: il Sud, nella prospettiva dell’autrice, è diviso in due categorie, un gruppo dirigente, in cui l’aristocrazia si mischia facilmente alla borghesia, e che ama portare il conto di cose e ville (Le case degli zii è il titolo che decide di assegnare alla seconda parte del libro) e un popolo, antropomorficamente opposto, che senza nome vive nell’ombra delle contrade più lontane dal paese, separato.

Due umanità attraversate dallo sguardo neutrale e curioso di Ramondino bambina, con un punto di contiguità: sono le donne ad amministrare le rendite e dominare la scena decisionale, a voler dare alle proprie figlie un’educazione moderna, con soggiorni per imparare il tedesco a Lipsia e l’inglese a Londra.

Al contrario gli uomini sono relegati ad una sentenza di sconfitta, destinati a “curarsi le ferite nelle loro guerre col mondo”, impegnati in follie di gioco, d’onore, incapaci di provvedere a loro stessi. Del tutto assenti, come il padre della scrittrice, confinato nella Capitale, oppure morti, colpiti dalle malattie.

La ricerca dell’inutilità

E tutti questi schemi gestionali riconsegnano al lettore un’interpretazione sul Sud, che non è mai banale. Un universo che esce dalla limitazione dell’essere valore d’uso per esprimere quel “desiderio di essere inutile”, come scriveva Renato Nicolini.

Un mondo di creme grasse come quelle che prepara la nonna per i dolci, pieno di parole da custodire, come ‘ruoto’ (“È un vocabolo solare e festoso che andrebbe introdotto nel dizionario italiano. Immeschinisce il cibo che esce dal forno la parola ‘teglia’”) e lunghi momenti di noia, alla controra, in cui non è possibile agire in nessun modo per evitare il calore, solo fermarsi a pensare, a libri da scrivere per il futuro, magari.

Althénopis non si limita ad essere romanzo, racconto e frammenti di ambienti: con la giusta presunzione sociologica, Fabrizia Ramondino consegna un libro che oltrepassa le definizioni e resiste con facilità al superamento dei suoi quarant’anni di pubblicazione.

Un’opera in cui le parole – in dialetto, tedesche, italiane – sono il baricentro del mondo, il punto di equilibrio che non deve infrangersi, l’immenso inventario inesauribile che appartiene alla gente.