Le foglie d’autunno si stavan sfacendo in polvere e l’odore di questa marcescenza era gradevole. L’aria non era balsamica, ma buona. Al calar del sole, il paesaggio assunse l’aspetto di un vecchio dagherrotipo color seppia. Il tramonto: uno slavaccio rosso all’orizzonte, verso la Pennsylvania, campanacci di pecore, abbaiare di cani sulle aie. Uno di Chicago poteva anche appagarsi d’una scenografia così povera. A Chicago s’impara a valutare il quasi-nulla. Di buon occhio guardavo quel modesto scenario: mi andavan bene i rossi sommacchi, le pietre biancheggianti, la ruggine delle erbacce, la parrucca di verde sul poggio, prospiciente le strade vicinali. Era più che gradimento. Era già affetto. Magari amore. L’influenza d’un poeta aveva forse contribuito al rapido sviluppo di quel mio sentimento per quei luoghi. (…) “Mi son data da fare per te. Non hai voluto saperne di Londra, di Parigi, di New York, no, macché! tu dovevi per forza venirti a seppellire qui, in questa orrenda, volgare, pericolosa città. Poiché in fondo sei rimasto un monello dei bassifondi. Il tuo cuore appartiene ai vicoletti lerci. Mi son data da fare a invitar gente…” (Saul Bellow, Il dono di Humboldt)
Se, come me, siete stati prima fan di Cheers e poi di Frasier vuol dire che, come me, avete nel cuore Kelsey Grammer, e che gli perdonate gli anni bui del dopo Frasier. In fin dei conti, è l’uomo che ci ha regalato più di dieci anni di perle e, insieme all’eccezionale David Hyde Pierce ci ha fatto rivivere i fasti di Oscar Madison e Felix Ungar prima e di Telespalla Bob e il suo fratellino alliffato Cecil Terwilliger. Certo, Grammer ha fatto e continua a fare cinema. Per me, che con i fumetti Marvel sono cresciuto, è stato una gioia vederlo nei panni di Henry Philip “Hank” McCoy, la Bestia, nella saga degli X-Men: eppure, niente di lontanamente paragonabile a Frasier. Ha provato una sit-com, all’epoca, ma è una cosa di livello talmente basso che la sua partecipazione è spiegabile solo con la sua dipendenza da alcool e droghe. Poi, dieci anni fa, è tornato alla grande con una serie da lui stesso prodotta e interpretata: Boss, che adesso trovate, finalmente, su Amazon Prime. Ora, scusatemi tanto, ma bisogna che io apra una parentesi. Come vi ho detto, Boss è del 2011, quindi a molti di voi potrà sembrare datata. Magari vi sembra che somigli ad alcune serie di oggi. Beh, non è, appunto perché è datata, ma perché è arrivata prima: non fate come quelli che guardano le tele imbrattate del cugino di Salerno, poi scoprono che esiste Pollock e pensano – a dispetto della linea temporale – che il vecchio Jackson abbia scopiazzato dal cugino Kevin. Lo so, voi non siete tra questi, ma vi garantisco che potrei citarvi alcune migliaia di esempi, quindi lasciamo perdere. Se Boss sembra datata, è solo perché è arrivata prima, tutto qui: senza John Ford non avremmo avuto Sergio Leone o Clint Eastwood: è chiaro a tutti quelli che si ostinano a non ignorare l’esistenza di John Ford, tutto qui.
E veniamo alla storia, che è quella di Tom Kane, sindaco e imperatore (e come tale siamo tra il tirannico e il malavitoso) che, al culmine della sua carriera scopre di essere affetto dalla demenza da corpi di Lewy, una malattia a metà tra il Parkinson e l’Alzheimer. La cosa, come immaginerete, lo sconvolge: non tanto per la malattia in sé, quanto perché la diagnosi gli piomba addosso in un momento particolarmente delicato, a un anno dalle elezioni per un nuovo mandato da Sindaco e a poche settimane dalla campagna per il nuovo Governatore che, chiunque sia, non può farcela senza di lui. Detto questo, un paio di cose. La prima è che Grammer rispolvera il suo passato da ottimo attore shakespeariano e affronta il ruolo drammatico con classe compostezza, senza concedersi gigionerie. La seconda è che la serie è coprodotta da Gus Van Sant, che è uno che dove vede e dove cèca, quindi stabilito che si tratta di un dramma, detta la linea: dramma sia. Ora, il problema è che fin quando è lui a dirigere (non lo amo, ma è uno che sa come si usa una macchina da presa) va tutto bene, ma se chiami Mario Van Peebles a dirigere tre episodi sai già che verrai sommerso da inquadrature macro di pupille, polpastrelli, lacci di scarpe, insetti di passaggio. Per come la vedo io, Van Peebles è uno che va tenuto al guinzaglio, vista l’altissima e immotivata opinione che ha di sé stesso, come attore e come regista. Nota positiva: la sceneggiatura, che è firmata da Farhad Safinia. Magari il nome non vi dice niente, ma è quello che, insieme a Mel Gibson, ha scritto quella meraviglia che è Apocalypto. Ultima cosa: per ora è disponibile solo la prima serie, e solo col doppiaggio in italiano. Che non è affatto male, sia chiaro, ma se voglio sentir recitare Kelsey Grammer nel 2021 me lo devi consentire. Per forza. Su Prime Video.