DOGS of BERLIN, mamma li crucchi

Da decenni le principali famiglie delle bande arabo-turche – i Rammo, gli Abou-Chaker, i Miri, gli Al-Zein – sono padrone delle strade in molte città tedesche, e per decenni la polizia le ha tollerate mettendo le loro malefatte tra parentesi, considerandole l’increscioso fenomeno collaterale di una minoranza, un po’ come fa con la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta. Molte famiglie provengono dalle minoranze arabe in Turchia emigrate in Libano. Da lì, durante la guerra civile degli anni ’80, sono partite per la Germania dove hanno chiesto asilo e sussidi. E alcuni di questi boss e i loro rampolli, che posseggono immobili, ricchezze immense e si scorrazzano per le vie dei centri con Mercedes, Ferrari o Lamborghini intestate alle madri o alle nonne, sono ufficialmente disoccupati e hanno incassato per anni il sostegno al reddito Hartz IV. (articolo di Tonia Mastrobuoni, Repubblica)

Sono ancora uno di quelli che pensa che l’arte, in generale, non possa esimersi dal raccontare la realtà da un punto di vista privilegiato. Anche politico, perché no. Perché era politico il Picasso di Guernica ma lo era anche quello delle Demoiselles d’Avignon se per politico intendiamo la capacità di raccontare il mondo. Non dico che sia un dovere, per l’arte: sono solo convinto che sia intrinseca alla sua natura. Ecco perché, più o meno – più più che meno – tendo a disprezzare sia quelli che gironzolano nei pressi del loro ombelico per poi raccontartelo, sia i puri e duri, per i quali ogni cosa che non sia dichiaratamente politica è un tradimento del proletariato, e ovviamente si sentono in dovere di comunicarcelo dall’alto delle articolesse su giornali non propriamente sovietici. La verità è che, quando fai questo mestiere (l’artista, perché di questo si tratta), quando pratichi questa arte scontrosa, se sei in buona fede, allora le cose che ti vengono fuori sono belle. Sto parlando della serie di questa settimana, Dogs of Berlin, che trovate su Netflix, diretta, prodotta e sceneggiata da Christian Alvart, e che è di una bellezza che non mi aspettavo, soprattutto perché è una serie tedesca, e onestamente è un po’ che i tedeschi hanno scocciato. Non tanto per le due guerre mondiali, quanto perché ogni volta che ti devono mettere in croce per qualcosa se ne escono con eh beh fanno così anche in Germania, e tu hai voglia a rispondere buoni quelli, loro e Horst Tappert (che poi sarebbe l’equivalente tedesco di Maaaatlock!, per dirla con Abraham e Jasper). Insomma, con Dogs of Berlin i tedeschi si fanno perdonare molte cose. La storia è quella di due poliziotti in lotta contro la malavita turca a Berlino, e detto così già pensiamo a cosa potremmo combinare noi italiani con una trama così, anzi, lo sappiamo già: un carabiniere burbero ma dal cuor d’oro, con la collaborazione di un prete/una suora/un sacrestano/alcuni cardinali sconfigge i cattivoni, scopre un vaccino contro il Covid che fa ricrescere i capelli e vincere all’Enalotto, e alla fine porta i bambini del locale orfanotrofio a prendere un gelato. Invece in Dogs of Berlin uno dei poliziotti viene dalla Germania dell’Est, ha un passato (e un presente) con un gruppo di neonazisti, ha un’amante tossicomane, una moglie inquieta e deve pure dei soldi a dei malviventi, visto che ha il vizio del gioco. Un giorno, alla vigilia di un incontro valido per le qualificazioni dei Mondiali di calcio viene trovato morto il centravanti della nazionale tedesca: che però è turco di nascita, e ha scelto di giocare con la Germania. Ora, logica vorrebbe che fosse proprio il poliziotto con vizietto Snai a dirigere le indagini ma, appunto, è tedesco e poi è stato in gruppo neonazi di cui fanno ancora parte sua madre e suo fratello. Politica vuole che, dunque, a dirigere le indagini vada un turco.

Ma turchi, nella squadra omicidi, non ce ne sono, quindi il capo della Polizia, donna e gay, decide di promuoverne uno, e lo sceglie, appunto, turco e pure gay. Ora, voi vi rendete conto che a questo punto Christian Alvart aveva due strade: la melasse del volemose bene oppure scriviamo un bel giallo e basta, dove non è un miracolo che uno sbirro sia gay e non è una colpa per un turco essere una bestia assetata di sangue. Ecco qui che entra il mestiere scontroso: l’arte. Perché Dogs of Berlin, essendo un giallo scritto da uno bravo, si concede anche un botto di gustose digressioni, tipo il biker alla SOA che però è praticamente Angelo Infanti in Bianco, rosso e Verdone. Insomma, ancora una volta, cerchiamo di non sottovalutare i crucchi. Su Netflix.