La trilogia tragica di Eugene O’Neill

Nell’atto centrale di Mourning becomes Electra (il settimo dei tredici atti della trilogia, messa in scena per la prima volta nel 1931, del drammaturgo americano Eugene O’Neill), il giovane Orin Mannon narra il modo in cui era rimasto ferito durante la guerra di secessione: avendo “la testa confusa”, questo moderno eroe tenta di realizzare l’ideale immaginato da Lazzaro (protagonista di un’altra opera teatrale dello stesso autore) prima di lui.

Tra aspirazione alla pace e realtà della guerra

Ovviamente, essendo stato colpito dal nemico, Orin aveva reagito con rabbia e in seguito con cinica amarezza. Gli esseri umani aspirano alla pace? Forse. Però è smaccata l’incongruenza tra un simile desiderio e la loro partecipazione alla follia della guerra: ecco il movente dell’implacabile violenza e del pessimismo del testo, la cui caratteristica dominante è l’aggressività. Modellato sulla struttura del mito elaborato nell’Orestea di Eschilo, il libro di O’Neill richiedeva che venisse narrata, quasi ostentata la furia fisica dei personaggi, non meno della loro disillusione.

Elettra divenne così tutto un Inferno, un voluto contraltare del Paradiso vagheggiato nel 1925 in Lazzaro rise. Un inferno soggettivo, mai mitigato dall’eroismo o dall’umorismo e nemmeno dal calore affettivo (diversamente dalle tragedie greche, dai gironi danteschi e dal dramma che O’Neill scriverà in seguito, The Iceman cometh).

Elettra ha una qualità intrinseca di compiutezza e i sentimenti sono spietati: l’esito è un lavoro artistico di estrema potenza ma l’assoluta depravazione che esso drammatizza lo fece apparire melodrammatico ed eccessivo, all’epoca della pubblicazione.

Le reazioni alla prima rappresentazione

Dopo la prima rappresentazione, l’opera fu lodata con molti superlativi: il critico Krutch, che sosteneva che il temperamento moderno fosse incompatibile con la vera tragedia, lo collocò tra i capolavori della letteratura teatrale.

Eppure, il successo di pubblico di Elettra fu modesto, le repliche durarono cinque mesi e per decenni non venne messa in cartellone da attori professionisti.

Secondo alcuni addetti ai lavori, essa soffre di un limite: non dà l’illusione della realtà e il rigore del suo disegno artistico ne costituisce il maggiore difetto. Nessun personaggio possiede un animo nobile come Lazzaro o si dimostra, a dirla tutta, profondamente umano.

Il lutto che “si addice” a questa nuova Elettra è più formale che sentito. Poiché l’Inferno esibito è assoluto, la tragedia rimane perlopiù di carattere mentale.

Le rielaborazioni successive

O’Neill ci aveva lavorato a lungo e lo aveva rielaborato in diverse occasioni. Era la prima volta che creava un testo partendo dalla mitologia classica. Nel 1926 scrisse: “La storia di Elettra? Quella di Medea? È possibile inserire in una tragedia del genere una psicologia moderna che si avvicini al senso greco del fato? Gli spettatori attuali potrebbero accettare un tale dramma ed esserne commossi?”.

Due anni dopo buttò giù nuovi appunti e cinque anni più tardi vergava il commento conclusivo (“lavoro finito”). Ossessionato dal progetto, esso gli diede così da fare che il risultato fu un trionfo dell’arte perseguita in piena coscienza, ma le qualità ricorrenti dei suoi drammi, fantasia e intuito, entrarono in Elettra solo incidentalmente.

Il progetto era nitido ma, appena si allontanò dal mito classico, Eugene inserì nelle battute la propria scatenata immaginazione e una serie di emozioni che dentro gli urgevano.

Tre drammi per tre serate

Il lutto si addice ad Elettra (con il sottotitolo: Una trilogia) consta di tre drammi. O’Neill sperava di farli recitare in tre sere consecutive ma prevalsero considerazioni pratiche e si decise diversamente.

Fu una soluzione logica e artistica al tempo stesso, visto che i componimenti erano stati concepiti e realizzati come atto unico. Tuttavia, emergeva la diversità del terzo: nei primi due, che seguono il paradigma del V secolo a.C., l’autore aveva tradotto un mito classico in termini psicologicamente moderni; nell’ultimo, che da Eschilo prende le distanze per descrivere un’Elettra moderna, aveva realizzato un mito autonomo.

L’Orestea come punto di partenza

Che si possano preferire gli uni o l’altro, dipende dai gusti. L’opera segue lo schema dell’Orestea, almeno nei tratti essenziali.

Oreste uccide Egisto e Clitemnestra opera di Bernardino Mei

Il primo dramma, The Homecoming (Il ritorno), è il più vicino al modello arcaico. Il generale Ezra Mannon (Agamennone) torna dalla guerra civile americana e viene ucciso dalla moglie Christine (Clitennestra) su istigazione dell’amante, Adam (Egisto).

La narrazione termina con un confronto tra la madre e la figlia Lavinia (Elettra). Rispetto all’originale, la variazione più evidente riguarda l’omicidio: Christine e Adam non colpiscono Ezra in bagno; la moglie gli dà del veleno al posto della medicina chiesta dall’uomo.

Sembra una discrepanza da nulla, invece rivela la sproporzione fra i caratteri. I due coniugi non hanno la statura eroica dei sovrani Achei. Ezra è un vecchio solitario più che un conquistatore e la sua colpa appare minima: non si tratta della crudeltà e dell’ostinato orgoglio di Agamennone, bensì del puritano rifiuto di soddisfare sessualmente la moglie.

Christine d’altra parte non è mossa da vero odio né da passione, agisce da donnetta velenosa e vendicativa. Nel primo dramma, all’ardore erotico e alla violenza sfrenata dell’originale si sostituiscono meschinità e frustrazione.

Il secondo capitolo della trilogia

Il secondo, The Hunted (L’agguato), si attiene ancora al mito greco. Orin Mannon (Oreste) all’inizio dell’azione è finalmente a casa. Venuto a conoscenza del delitto compiuto da Christine, va in cerca dell’amante della donna e lo uccide.

A differenza di quanto accade nella tragedia di Eschilo, risparmia la vita alla madre, le rivela di avere ammazzato Adam e le rinfaccia il delitto di cui ha le prove, così da indurla al suicidio. L’ennesima scelta stilistica che mette in risalto la natura antieroica dei protagonisti.

Le Furie, materializzate nel testo greco, sono qui l’equivalente della coscienza fratta e della labile mente del giovane: Orin incarna l’anima dilaniata degli uomini contemporanei, dopo l’esperienza e gli orrori del conflitto mondiale.

L’epilogo della storia

Il terzo dramma, The Haunted (L’ossessione), diverge volutamente e in maniera sostanziale dall’originale.

Si incentra sul carattere di Lavinia e attribuisce alla nuova Elettra l’unica scelta eroica e la sola vera parabola tragica. Nel testo antico, la fanciulla era sposata a un agricoltore e restava sempre in posizione subordinata rispetto al fratello. O’Neill, modificando l’azione e la concezione drammatica del suo lavoro, intendeva conferire alla figura femminile una conclusione epica degna del personaggio.

Il nuovo Oreste, che non può più essere assolto dalle Furie incalzanti, accetta la maledizione e si uccide, gridando: “I dannati non piangono!”. Lavinia-Elettra, invece, riconosce il male del retaggio domestico e sceglie di trionfare su di esso, rimanendo viva.

Comincia a pagare le colpe ataviche chiedendo che vengano gettati i fiori, si chiude in se stessa con i propri ricordi e tenta di comprendere il passato, il modo di piangerlo e di portarne il lutto.

Insomma, la moderna Elettra riconquista umanità senza chiamarsi fuori, guardando in faccia una tragedia più grande di quella affrontata o subìta da coloro che l’hanno preceduta. Ella inizia, scrive O’Neill, “la sua lunga giornata verso la notte”.

I limiti dell’opera

I difetti dei primi due drammi hanno indebolito l’efficacia del finale. La motivazione psicologica era troppo esplicita e O’Neill ha esasperato i complessi freudiani di Edipo e di Elettra.

L’amore peccaminoso dei figli per il genitore di sesso opposto è descritto come un dato universale e compulsivo, come se i protagonisti vi fossero condannati dalla nascita; a eccezione di Lavinia, sembrano tutti vittime della natura ricevuta in eredità.

Ciò che voleva essere la molla dell’azione dell’opera risulta enfatizzata al punto da distruggere la credibilità dell’elemento tragico. Il moralismo e la psicologia clinica non forniscono l’illusione della realtà che ci si aspetta da un’opera teatrale.

O’Neill, conscio del limite, provò a superarlo inserendo una sorta di coro di cittadini che fanno da sfondo “umano” e mettendo alcuni personaggi minori in contrasto con gli “inumani” protagonisti: per esempio, Peter Niles e la sorella Hazel sono innamorati dei giovani Mannon, ma entrambi si dimostrano ingenui e ostinati, anche quando vengono respinti.

Un vero Inferno, se rappresentato, deve stabilire un rapporto con la realtà quotidiana, eppure soltanto il custode del palazzo in cui i protagonisti abitano riuscirà a creare una sorta di ponte tra loro e il mondo dei vivi. O’Neill ha vinto comunque la scommessa: la storia è tragica e interessante, lo scopo è stato raggiunto dall’autore usando le proprie motivazioni e alcune idee estranee alla versione originale.

Un Eden nell’oceano Pacifico

Per esempio il tema delle “Isole beate”, il sogno di un Eden condiviso e in grado di fornire un contrasto al malessere interiore.

Gli antenati della famiglia Mannon avevano navigato nei Mari del Sud e Orin, compulsivo lettore di Melville, sogna di viaggiare nel Pacifico come aveva fatto il suo scrittore preferito. Anche Christine e Adam vagheggiano di fuggire con una nave verso le “Isole beate” (non vogliate negar l’esperienza, di retro al sol, del mondo sanza gente, urla Odisseo ai marinai pavidi e stanchi).

Lavinia e Orin partiranno dopo la morte dei genitori. Il ragazzo, però, come Melville nella realtà, rifiuta il paradiso ideale per tornare alla puritana casa delle origini. Lavinia, rientrata in patria con il fratello, comprende che la fuga è stata un’illusione, che a lei tocca affrontare i fantasmi del passato ed espiare il male che la abita.

Il tema edenico dei Mari del Sud fornisce un movente al dolore della conclusione. La trilogia sembra avere sancito la fine della ricerca, da parte di Eugene, del “segreto che si trova nascosto oltre l’orizzonte”. Lo scrittore aveva vissuto esperienze analoghe e, al pari di Lavinia, al termine di un viaggio in Oriente, era concretamente e simbolicamente tornato in America, rinunciando alle utopie.

“Vivrò sola coi miei morti e lascerò che mi ossessionino fino a quando la maledizione non sia finita”: così la nostra Elettra del ventesimo secolo accetta la sorte.

Così la morte si sconta, sussurra il poeta. Vivendo.