Halston, alta moda e scuole basse

«”La moda è generosa”, pensi / Cade più docile delle mura, / Più facile dei bastioni: / Ai tuoi piedi, sciolta la chiusura. / Dici i Greci, e pensi sono pieghe, / Son colori i Fenici, / E i Macedoni fibbie, / Intimi i Latini. / “La moda è generosa”, pensi / Meglio di un pugile si risolleva / Più agile perde i sensi / Crolla in pezzi senza alcun patema. / Dici i sogni e pensi ai bottoni, / Son asole i risvegli, / E gli scolli effusioni, e spacchi gli sdegni. / E chi teme la moda è immerso in essa comunque / E d’essa è intriso come un cardo dal gambo reciso. / E dici è molto comoda se esclude / Sempre di presentarsi in figure, / In tagli, forme e positure, / Immediatamente tutte nude. / Così che quando passa questo eccesso / Ci pare non avere perso nulla, / Ci pare non avere perso il tempo / Che la nudezza sbriciola e maciulla. / Dici la via di mezzo, ecco la via / Quella percorsa dai ragazzi alteri /Che vanno a divertirsi nei misteri, / Spiegabili perché non intralciati, / Dai cupi sedimenti dei passati. / Mi dici il mezzo giro, / Quello che va di moda, dei tuoi fianchi; / Gli occhi totali, come elianti / La spossatezza semplice, formale, / Ed un rilassamento collegiale. / Come se intorno a noi, / In curvi corridoi, / I disciplinatori, / Le studentesse e gli studenti, / rapinatori del momento d’oro, / Consumassero un lusso di moine, / Un rimandare sempre all’anno dopo, / Frenetici in un ballo senza scopo. / Noi nella stanza accanto / E la moda cambiava nel respiro, / Il nostro che cambiava ogni tanto». (La moda nel respiro, Pasquale Panella, Lucio Battisti, Grazia L. Veronese)

Mea culpa. Anzi, più d’una: precisamente due. La prima è che non avevo idea di chi fosse Halston. Oddio, è probabile che lo abbia sentito nominare, ma anche smucinandomi in testa, di questo Halston qui non ho trovato traccia. Trattandosi, come diceva Franchino, di cultura generale, come culpa è abbastanza grave. L’unica giustificazione che riesco a trovarmi è che aveva creato il cappellino iconico (lo so, fa schifo, ma in questo caso lo schifo ci sta) di quella megera accovata di Jackie Kennedy, che lo so che a voi sta simpatica, ma io l’ho sempre tenuta voi sapete dove. Insomma, Halston, chi era costui. E siccome non sapevo chi fosse, e siccome da maschio etero di una certa età nutro una invincibile indifferenza verso gli stilisti di moda (ai tempi belli, Michele Serra diceva che ormai eravamo sotto lo schiaffo dei sarti), di sapere chi fosse Halston, pur vedendo che su Netflix c’era una serie nuova di pacca (absit) a lui dedicata, ho tentennato. Sentir narrare le gesta di ambigui manipolatori di sete e pellami non è proprio cosa mia. E poi c’era il protagonista, Ewan McGregor, che ultimamente mi aveva deluso sbagliando un po’ di film, io che, più che in Trainspotting lo avevo amato nella miniserie musicarella Lipstick on your collar. Perché in Trainspotting aveva un ruolo facile (io considero facili tutti i ruoli dall’esagerato in su, è una cosa mia), mentre in Lipstick, oltre a recitare benissimo, cantava e ballava: sempre benissimo. Poi, secondo me, si era un po’ perso, soprattutto per colpa degli orrendi Angeli e demoni (Ron Howard) e L’uomo nell’ombra (Polanski), per non parlare dei micidiali Star Wars: due palle e Ancora Star Wars: se non vi bastavano due palle.

Ecco perché non mi piaceva affatto l’idea di vederlo in un altro ruolo esageratissimo (che è il posto dove vanno a morire gli attori bravi trasformandosi in macchiette) e titubavo. Tentennavo. Nicchiavo. E come succede sempre quando titubo, alla fine scopro che era meglio non titubare. Perché qui McGregor si esibisce in quella che per me (read my lips: per me) è la sua più grande interpretazione. Innanzitutto perché il suo personaggio tiene per tutte le puntate della serie, e si sa che in ruoli difficili il film è meglio, dura di meno e hai meno possibilità di sbagliare, a meno che il regista non sia chi dico io. Ebbene, qui McGregor interpreta un gay isterico e supponente, creativo e scansafatiche, rompicoglioni e stakanovista, cocainomane e snob, facendone uscire un ritratto umano come non se ne vedevano da tempo. Da segnalare anche un invecchiatissimo Bill Pullman – giusto per ricordarci che se si fa vecchio lui, figuriamoci noi – e una strepitosa Krysta Rodriguez in un ruolo che più difficile non si può: Liza Minnelli. Due chicche: Rory Culkin, fratello dell’ormai famigerato più che famoso Macaulay Culkin, e una eccellente Mary Beth Peil (la suocera stronza e impicciona di The Good Wife) che fa nientemeno che Martha Graham. Insomma anche se – come me – detestate la moda e soprattutto pensate che l’haute couture andrebbe vietata per legge (con l’ovvia eccezione di alcune zone della Francia settentrionale e laddove un accento frufrù basti a sostituire una discreta scuola dell’obbligo), Halston è una serie da vedere. Fidatevi. Su Netflix.