Il lutto secondo Joyce Carol Oates

Joyce Carol Oates ha da poco compiuto 85 anni. Una vita lunga e prolifica: la sua produzione artistica quasi incessante ha spaziato tra i generi. Racconti e romanzi, recensioni letterarie, poesie, narrativa per l’infanzia e drammi teatrali. Con incursioni nella saggistica.

Nel 2011, tre anni dopo la perdita del marito, pubblica il memoir Storia di una vedova. L’opera è divisa in sei parti: La veglia; Caduta libera; Il basilisco; Purgatorio, Inferno; “Avevate un aspetto così felice”; Epilogo.

La scrittrice americana mette insieme, con tecnica mista e un ritmo serrato, episodi, cronache minute e decine di mail scambiate con amici e colleghi nel periodo che segue l’evento.

In 600 pagine dice la sua parola, micidiale e definitiva, sul lutto. Che ha un odore: prima quello acre e nauseabondo dell’ospedale, poi quello dei cibi inutilmente elaborati o dei fiori rari, destinati ai “cesti per le condoglianze” che fattorini inconsapevoli e oscenamente allegri le recapitano. Frutta, cioccolato, vasetti gourmet e piante già putrescenti o prossime a farlo quando scarta gli assurdi pacchi che trasudano compatimento non richiesto.

Il lutto ha inoltre l’odore delle sedie di plastica logora degli uffici della burocrazia, dove attendere certificati, autenticazioni e testamenti omologati da impiegati che paiono vomitati dal castello di Kafka.

L’odore del lutto è quello del rimpianto e di un nuovo tempo senza ore, quello che abbiamo e che resta dopo che è passata l’apocalisse e lo tsunami si è placato. Almeno sopra la pelle.

Quella lista infinita di “se”

Lunedì 11 febbraio 2008, Raymond Smith, raffinato scrittore e per anni direttore editoriale della Ontario Review, viene ricoverato al Princeton Medical Center.

Quando la moglie Joyce lo scopre febbricitante all’alba, dopo una notte insonne, mentre nutre i gatti nella veranda dove amavano fare colazione e condividere gli allegati ai quotidiani o chiosare le bozze dei propri o altrui libri, lo accompagna all’ospedale, senza che nessuno dei due sospetti la gravità dei sintomi o tantomeno il rapido declino.

Dopo una settimana, in cui viene diagnosticata una polmonite e si attivano le cure necessarie, pur restando debole, Ray migliora e lascia la terapia intensiva. A quel punto, però, subentra un’infezione secondaria batterica da Escherichia Coli.

In una manciata di ore nella notte tra domenica 17 e lunedì 18, appena Joyce è tornata a casa a riposare, Ray muore per collasso cardio-polmonare.

Il corpo amato e conosciuto da quasi mezzo secolo in ogni sua piega e recesso, il corpo accarezzato e nutrito o scaldato negli abbracci del talamo diventa rapido “la salma”, “il cadavere”, nell’asettico linguaggio di medici e di infermieri che devono gestirlo e mettono fretta alla vedova, perché va spostato al piano inferiore, il letto liberato.

La “cosa” che diventiamo quando il respiro cessa e che si aggiunge alle altre cose della stanza: oggetti ormai inutili, perfino ridicoli, un pettine di plastica, il tubetto del dentifricio schiacciato a metà, gli occhiali da vista, un deodorante in polvere.

Il nulla che siamo diventati ma che la vedova dovrà buttare alla rinfusa in un sacchetto per fare posto ad altre povere cose di chi è ancora in vita.

Uguale era l’incredulità dell’imperatore Adriano di fronte all’imprevisto decesso di Antinoo. Un attimo prima il giovane favoloso era al suo fianco e divorava miele e datteri. Ti distrai brevemente e l’amante è un corpo grigiastro, la pelle si ritira, la tunica cade male sui fianchi. Tutto diventa opaco, perde consistenza.

All’ansia impotente subentra la rabbia: la furia di Joyce è la stessa di Amleto quando arriva di nascosto alla sepoltura in terra sconsacrata dell’amata Ofelia. Ciò che più ferisce è che il resto del mondo non sembra accorgersi del vuoto; i becchini fanno il loro sporco lavoro, sognano di ubriacarsi alla taverna sulla strada del cimitero e ridono e prendono a calci un teschio che taglia la strada alle vanghe che scavano. Corpi su corpi, creare spazio, rimescolare le ossa.

La morte pone i dolenti in una dimensione “altra”, dove i vivi non possono raggiungerli se non con false parole che suonano rauche. Si veglia e si coltivano pensieri irrazionali. Si crede a tutti e a nessuno, ci si affida a chi sbriga le pratiche e organizza i rituali, quindi si spalanca la porta di casa alla maciulla: quella del senso di colpa, che separa ulteriormente.

SE avessi intercettato prima i sintomi, SE non fossi partita per quel viaggio di lavoro o di piacere in fondo procrastinabile, SE Ray si fosse messo una sciarpa quando è uscito a ritirare la posta. Era febbraio, è stato irresponsabile.

SE, soprattutto – visto che potevo scegliere – lo avessi portato in un altro ospedale, con protocolli collaudati e medici competenti, meno superficiali. Tanto, non era marito loro. Nemmeno padre o amico o collega. Non era nulla, per quegli anonimi camici bianchi.

Per Joyce, il coniuge era l’universo. Per gli operatori della sanità, uno che occupa un letto e poi va in fibrillazione. La pressione crolla e il battito cardiaco accelera. Il corpo impazzisce e cede. Avanti il prossimo. Sanificare la camera e svuotare gli armadietti. “Signora, deve chiamare lei le pompe funebri, non è nostro compito. Cerchi il numero sulle Pagine Gialle”.

Dicono proprio così, le annoiate infermiere del turno di notte, a Joyce che si aggira per i corridoi del nosocomio come Andromaca pazza di ansia sui veroni di Ilio. Ettore a pezzi è aggiogato al carro di Achille e più non torna. Raymond Smith sta per scendere in obitorio, dentro una scatola buia. Nemmeno lui torna. La vedova prosegue la veglia e non dormirà mai più. O così crede. Il senso di colpa scava e apre tunnel, stilla dopo stilla. Prosciuga il sangue e desertifica il cuore. Tutti i SE che verranno dopo quella notte piegano l’anima. E non troveranno valide risposte. Perché non ce ne sono.

Una caduta rovinosa

David Grossman, nella potente opera corale, quasi un Libro dei Morti del terzo millennio, dedicata al figlio ucciso in guerra, chiama con grida inumane, sapendo di non essere ascoltato, coloro che abbiamo amato fino a star male e che a un certo punto “cadono fuori dal tempo”, parafrasando il titolo.

Dove vadano davvero, non si sa. Chi resta parte per un viaggio all’Ade, dentro e fuori di sé. Chi resta cerca indizi e strategie di sopravvivenza, chiede consigli e accetta di bere un caffè o consumare un pasto caldo con gli Altri, non ancora toccati dalla perdita. “Io non mori’ e non rimasi vivo”, scrive il tosco all’inizio del viaggio impossibile: nessuna parola rende meglio la condizione di chi è in lutto ma è costretto a respirare. A mangiare e a lavarsi. La fisiologia ha le sue necessità, la natura prevale.

Si vorrebbe soltanto seguire il marito o il padre o il figlio. Non si può. Non subito. Allora ci si alza e a fatica si mettono i piedi uno davanti all’altro. Dormire, morire, forse sognare, per dirla con il malinconico principe danese, sembra l’unica scelta ragionevole, quando l’amore è migrato oltre i confini del giardino, direzione Via Lattea, dove Scipione racconta che i morti ci precedono, vestiti di luce eburnea per indicare la strada.

Oates precipita e non oppone ostacoli alla rovinosa caduta, spera ogni mattina di non riaprire gli occhi, perché il dolore è un mantello pesante che soffoca i pensieri e cancella i progetti. Perché l’incredulità stringe le vene e chiude i bronchi. Nel lutto si smette anche di muoversi, per non far rumore: Raymond non è con Joyce nello studio perché sta smistando la posta in un altro angolo della casa, oppure si è fermato di colpo a metà del vialetto, come faceva spesso, a leggere i titoli a effetto sulla prima pagina del New York Times, a cui entrambi sono abbonati da trent’anni. Joyce tende l’orecchio, questione di attimi e lui la chiamerà: “Ehi, tesoro, non immagini cos’è successo…”.  Ecco, il suono della complicità. Giunge invece solo il canto della cinciallegra.

L’ora del basilisco

Il basilisco, nelle antiche leggende greche, è una creatura mitologica nota come “il re dei serpenti”. Si pensava che avesse il potere di pietrificare con un solo, venefico sguardo. Ne furono affascinati Chaucer, Voltaire e Shelley. Prima ancora, Plinio il Vecchio e Alberto Magno, che scriveva di credere allo sguardo omicida del rettile. Joyce lo incontra nella periferia del proprio campo visivo nei primi giorni del lutto: è un’entità luminosa ma a tratti scura e dispettosa, che la tortura con domande non richieste e l’accusa della peggiore inettitudine. “Perché lo hai lasciato solo in quell’asettica stanza di ospedale, come hai potuto non prevedere che si sarebbe sentito abbandonato, che avrebbero sbagliato le terapie? Perché andavi e venivi da casa vostra, portando bozze di libri e prove di stampa per occupargli le ore, quando tutte le parole del mondo erano ormai inutili e lui aveva bisogno della tua onnipresenza, di occhi negli occhi, perfino del silenzio, dove vi facevate comunque compagnia?”.

È un serpente cattivo e ignobile, il basilisco, sa il punto esatto in cui infilare il gladio del dilemma e del rimpianto. Sputa veleno e insinua scenari diversi, dove Ray si riprende e viene spostato in un centro di fisioterapia, giusto un paio di settimane per imparare a controllare meglio la respirazione; infine gli sposi rientrano a braccetto nel nido caldo dove i gatti li aspettano, dormono ai piedi del letto e schivano coccole.

Un luogo buono e caldo che profuma di caffè tostato e di inchiostro di giornali freschi di stampa. Un regno dove per il basilisco non c’è spazio. Invece, partito Ray, il verme della colpa e delle frasi non dette e dei gesti incompiuti occupa l’intera casa. E si sdraia ogni sera a fianco della vedova, dopo che ha passato in rassegna le stanze. Tutte chiuse. Riscaldamento spento. Stanze fantasma.

Tra purgatorio e inferno

Nel Paradiso Perduto di Milton, a un certo punto Lucifero urla impotente: “Dovunque io fugga è Inferno; sono io l’Inferno”. Oates mette i versi del poeta inglese nell’esergo della quarta parte del memoir.

Il suo personale Inferno è iniziato quando Ray è stato consegnato agli impresari che si occuperanno della cremazione. “Un giorno alla volta”, si ripete, come il mantra degli Alcolisti Anonimi.

E ancora: “Mantieniti attiva. Non cedere. Non tradire le promesse”. Circondarsi di persone care o di colpo volerle spazzare via e fare vuoto, anche negli armadi. La vedova si libera in modo compulsivo della metà dei vestiti. Non quelli del marito perduto, proprio i suoi, di Joyce. Abiti eleganti indossati in passato, durante le molte occasioni mondane a cui aveva partecipato con Ray. Gonne e pantaloni in cui si era sentita sbarazzina e felice. Maglioni caldi che l’avevano vista ridere con il compagno. Cumuli di oggetti dentro un sacco dell’immondizia, trascinato con furia lungo il marciapiede.

Il giorno seguente, subentra lo smarrimento. Inferno e Purgatorio, senza soluzione di continuità. Abissi di dolore alternati a stagnazione, mentre si procede perplessi lungo i cerchi della montagna. Su tutto, lo sguardo del malefico sauro, la tentazione suicida. Chi può impedirlo davvero, se è l’atto desiderato? Con quale autorità morale opporsi al libero arbitrio di chiamarsi fuori? Invece no, la vedova sa che il suicidio è una porta segreta e rassicurante che, una volta varcata, si chiuderà di colpo alle spalle.

Ma ora non è tempo, basta sapere che esiste e che l’uscita è contemplata, perché il pensiero stesso diventi un deterrente. Nel frattempo, accumulare i giorni e le notti appesantite da sonniferi, compulsare gli aforismi feroci di Nietzsche e di Camus e, “con fanatica pulsione e la forza di volontà proprie di un atleta olimpionico”, compiere, a ogni giro del pianeta, l’atto titanico di scendere dal letto. Un gesto che sfida vita e morte e le Erinni schierate. Una fatica di Sisifo: questo il pensiero che attraversa la coscienza opaca di benzodiazepine. Joyce rimane. E fa testimonianza.

Nella Terra dei non dolenti

Tutti i memoriali sono pellegrinaggi, investigazioni”, riflette la Oates nella parte conclusiva dell’opera. Nei primi giorni, nelle settimane e nei mesi che seguono la perdita, la vedova si accorge di esistere in una dimensione “priva di senso”, in cui gli altri recitano una sorta di commedia nera in base a copioni più o meno elaborati. Lei, la vedova, no. Ha subìto un’amputazione, forse un occhio è stato enucleato o la nebbia della demenza precoce ha colonizzato il cervello.

Sta di fatto che arranca sulle tavole di un palcoscenico che ha smesso di riconoscere, le hanno consegnato un canovaccio rozzo e deve improvvisare le battute. Sempre le stesse, nessun guizzo né interpretazione. Perché a lungo vivrà ai margini. Del teatro-mondo in cui lei si aggira come una mediocre comparsa. Sembra disturbata e interdetta, mette a disagio quando entra nel cono di luce dove si muovono, ballano e corrono gli altri. I Sani, i non dolenti, coloro che osservano il lutto come un morbo contagioso da cui proteggersi.

Joyce rammenta una donna, conosciuta in Ontario alla fine degli anni Sessanta e il cui marito, docente di letteratura e collega della Oates, era morto precocemente per una forma aggressiva di sclerosi multipla. Alla cerimonia di commemorazione organizzata dall’università, la vedova del professore le disse che tempo prima aveva visto Joyce e Ray passeggiare sul lungofiume, tenendosi per mano. “Avevate un aspetto così felice”, aveva aggiunto. Quasi un’accusa, un inconscio rimprovero. In quel preciso momento, la scrittrice non comprese. Ora sapeva. Ora anche lei era fra le ombre. Camminava fra i dolenti.

Riveder le stelle (forse)

Ray era morto alla fine di febbraio del 2008. Otto mesi dopo, in agosto, Joyce ebbe tre piccole visioni oniriche. Nella prima, lei e il marito si trovavano in un giardino, un hortus conclusus più grande e meno coltivato del loro. La luce era soffusa e il marito la guardava. Lei era in pace e voleva sapere se l’uomo, finalmente, stesse bene.

Nel secondo sogno, la donna era a letto e stava leggendo, quando scivolò in uno stato di assopimento. Sembrava “un mare di acqua calda”, che le ricordava le ore notturne di veglia durante il ricovero di Ray. Giusto il tempo di chiudere il libro e di posarlo sul comodino, era piombata in un profondo sonno, non indotto da farmaci. Nelle notti seguenti, avrebbe continuato a dormire, senza sostegni chimici. Quasi temendo che il prodigio svanisse, non ne aveva fatto parola con nessuno. Nutriva paure vili, come se stesse abbandonando il marito o il ricordo di lui e della loro vita insieme.

La terza e ultima epifania accadde alla fine del mese quando un mattino avvertì, prima confusamente, poi con dura lucidità, che non era più una donna sposata. La coscienza della perdita irrimediabile la travolse. L’insonnia era sparita, lei era ancora viva e manteneva alcuni buoni amici. Le cose sembravano migliorate, ma non era proprio così. Non del tutto. Sul vialetto d’ingresso, un bidone della spazzatura era stato rovesciato, forse da un gruppo di procioni. Immondizia ovunque: mentre era piegata a raccogliere gli avanzi disseminati sul marciapiede, Joyce aveva trovato un orecchino d’argento che credeva perduto. Quegli orecchini erano il suo gioiello preferito, pur non avendoli ricevuti da Ray. Di colpo, riflettè: “Questa è la mia vita, ora. Assurda, ma imprevedibile. Se, insieme al mio adorato marito, ho smarrito il senso dell’esistenza, posso ancora trovare qualche tesoro nell’immondizia. Sì, a volte capita”.

Nel primo anniversario della morte di Raymond, dirà a se stessa: “Mi mantengo viva”. Spesso, è tutto ciò che conta. Si cade, lungo la via, come un morto corpo cade, piange l’esule poeta. E “al tornar de la mente”, se il tempo lo concede, si resta saldi. Per riveder le stelle. Per respirare, forse.