Il sogno nero di Guy Montag

A Clarisse l’avevi detto quasi subito. Non per giustificarti, solo per riempire quello strano silenzio. Che ti pareva inutilmente prolungato. – Il cherosene è il miglior profumo al mondo -. Clarisse, faccia come neve al chiaro di luna, domande in testa, affollate.

Albicocche e fragole, nell’aria, profumo appena percettibile. Odore rosso e dolciastro. Impossibile, gli parve, a stagione tanto avanzata. Clarisse, diciassette anni di pazzia, così le ripetevano. E lei credeva a parole e profezie di parenti serpenti.

Credeva, evanescente Clarisse, a simboli e a pittogrammi dimenticati. Pochi superstiti: salamandre lucide sul braccio, su divise stirate. Poi fenici, fenici ovunque. Ma morte, ricamate e incise. Non risorte. Fenici eternate su dischi, nel centro del petto, appena di lato al muscolare cuore. Solo un po’. Dischi di uccelli mai intravisti, raccontati per celia, fenice felix come Arabia, come resurgit, come ceneri tre giorni nel sepolcro. L’ascesi, poi, fenice in volo e di nuovo fuori e dentro i mondi.

Fenici partite per Via Lattea, salamandre avvolte su braccia in divisa. E sopra, a ombreggiare uccelli di Atlantide e dischi su petti cavi e rettili usciti dal Maelstrom, un elmetto. Che reca cifre, numeri belli, anche, a vedersi. Un quattro, come i vangeli. Un cinque, come le dita di dio in Sistina appese. Uno, poi; uno e trino e dogma e genesi e apocalisse. 451 e un tubo di rame.

Sputafuoco, mangiafuoco, fuoco fatuo, circo e cherosene. Di nuovo. Quel profumo – odore, Montag, lo senti? Lo lavi prima di adagiarti o ti fa notturna compagnia? -, che buono il respiro delle cose, quando si torna a casa e hai visto libri morire su verande, agonizzare come stupidi piccioni. Che vespro fecondo: meno feccia, meno inchiostro. Stanato ancora, in caserma potranno riposare. È stato un buon lavoro, Guy, magari una medaglia, chissà. O forse solo una pacca sul disco, divisa bella, non una piega, salamandra immobile ma pronta a cacciare nuova feccia. Roghi notturni, meglio ancora. E finalmente, magno cum gaudio, aver capito, Guy, che di falò di parole si vive. E bene. E chi è in alto sa, e medica e purifica. Con fiamme e Segugi.

Qualcuno, a comprendere, è sempre più lento. Ma chi in alto sa, e prevede e provvede, li trova, sempre li stana con una sgangherata risata. E vedi, Montag, una volta stanati, si parte, sai? Sono soffitte in città di canali, che per poco ti hanno protetto ma poi, che farci? fuori ti vomitano. Sono bunkers, sono fienili, sono ghetti inchiodati la sera, sono shtetl mangiati dalle steppe. Ma, prima o poi, falò di carta ed elmetti e divise e lucide salamandre. E croci snaturate, e urla ed editti, ecco, ti trovano sempre.

Poi arrivi tu, Montag. Con tubi di rame, cherosene profumato, meccanici cani e ghigni sconci. Oppure, arrivano treni. E ripartono prima dell’alba, non visti. E tornano vuoti. Lì, Guy, falò di carta. Là, nuvole di sommersi. Salvati, pochi. Ti ha chiesto, Clarisse, prima del congedo, se tu fossi felice. Felice, io? Ma certo, sciocchina. Che domande assurde, nevvero.

E la frattura, povero Guy, non si ricompone, ormai. E ricorderai, oh sì, dovrai farlo, un poco di Apocalisse, sette sigilli e altro fuoco di scoperchiati sepolcri. E l’Ecclesiaste. Tu sarai l’Ecclesiaste, così ti diranno, imporranno. Et dulce et decorum erit, Guy, memorare parole del figlio di Davide Re. E sarai di Salomone voce. E fenice risorta. E in volo, at last. E sarai Libro e sarai Tempio. Felice no, che sciocche sciocche domande, talvolta, fanno le pazze ragazzine con faccia di latte.