La finestra sul cortile di Georges Simenon

La coincidenza è curiosa. Siamo nel 1942. Uno scrittore vive allo Sheraton Hotel di Manhattan con la madre, un altro scrittore siede alla sua scrivania di Fontenay-le-Comte.

Nel pieno del conflitto che sta devastando il mondo, entrambi però non guardano alla guerra. La loro penna segue quello che sta accadendo oltre la finestra. Che sia una Finestra sul cortile o un vetro che si affaccia a Parigi sul Faubourg Saint-Honoré.

La- finestra sul cortile di Alfred Hitchcock (1954)

Cornell Woolrich scrive, firmandolo con lo pseudonimo, il racconto It Had to be Murder, che poi ribattezzerà Rear Window e da cui nel 1954 Alfred Hitchcock trarrà – con l’aggiunta alla storia di una fidanzata, la splendida Grace Kelly – la Finestra sul cortile, che l’anno seguente conquistò quattro nomination (e nessuna statuetta) all’Oscar.

Di qua dall’Oceano intanto, la guerra prosegue e solo nel 1945 Georges Simenon arriva a pubblicare La fenêtre des Rouets.

Il punto di partenza è analogo: due persone guardano fuori dalla finestra e scoprono un omicidio.

Se Woolrich aveva immaginato però un uomo bloccato sulla sedia da un’ingessatura, Simenon da subito sceglie un’altra strada. Come protagonista vuole una donna: Dominique, o “Nique”, come la chiamavano da piccola e come lei ogni tanto si intenererisce pensandosi.

Dominique ha 40 anni e non ha una vita fuori da quella casa, dove passa il tempo a rammendare calze e a cercare di non ascoltare i gemiti di passione della coppia cui ha subaffittato una stanza. Non è – ci spiega Simenon – una vecchia, ha un corpo ancora bello, eppure il suo animo è avvizzito, i sogni sono morti molti anni prima con la scomparsa dell’uomo che aveva platonicamente amato.

L’energia dell’Hal Jeffries di Rear Window, frenata solo dalla gamba rotta, in Nique è assente. Così, quando vede l’esuberante dirimpettaia Antoinette che, anziché soccorrere il marito in preda a una crisi cardiaca che minaccia di ucciderlo, versa il contenuto delle fialette salvavita in un vaso e aspetta la fine inevitabile, Dominique non cerca di sventare l’assassinio.

Osserva, scrive un paio di lettere anonime di cui poi si pente, e progressivamente entra nei panni dell’uxoricida. Tramite Antonoitte, vive la vita che le è stata preclusa, o che lei stessa si è negata. Senza nascondersi, segue la donna che, rimasta vedova, va in cerca di nuovi amanti, frequenta pensioni a ore, insegue uomini e amori.

Thriller dell’anima, La finestra dei Rouet indaga i sentimenti della sua protagonista scena dopo scena: mentre sbircia dalle persiane i suoceri di Antoinette che vivono al piano superiore, mentre guarda la cameriera spia che sale a riferire, mentre intuisce la prossima rivelazione della presenza di un amante.

Sempre lontana da ciò che sta avvenendo, al tempo stesso spettatrice ma anche protagonista dei drammi in corso. Nell’assenza, in questo affine a Woolrich, di un mondo esterno reale.

Qui il  faubourg è reso deserto dall’agosto, là la mancanza di folla era giustificata dal cortile. E se ripensiamo ai lockdown della pandemia, ai balconi da cui ci si affacciava guardando quelli dei vicini, ancora meglio si può capire quanto bisogno di vita possa esserci nel chiuso di una casa.

Nello scorrere delle pagine, il voyeurismo di Dominique progressivamente non si fa più occasionale, la sua esistenza di inesorabile solitudine (e non è che prima, con un padre dispotico da accudire, le andasse meglio) non può più fare a meno di quella della donna che inconsapevolmente le permette di accendersi, mentre le luci calano sul buio.

Così, quando le finestre della casa di fronte si chiuderanno definitivamente e Antoinette partirà, a Nique non resta che una scelta da compiere.