L’autotradimento di Hanif Kureishi

Che cosa ti porti dietro quando decidi di lasciare la casa in cui hai vissuto anni, la compagna, i figli? Quando, in una lunga notte silenziosa, devi prepararti a sgattaiolare via, armato di tanta paura e di una sola valigia dentro la quale… che cosa ci infili?

I percorsi della lettura, le scelte dei libri da scoprire o delle pagine da rileggere, possono essere intricati. Magari si parte da un film che capita di rivedere, e da lì si torna indietro.

Intimacy – Nell’intimità è una bella pellicola di Patrice Chéreau, che nel 2001 vinse un paio di Orsi a Berlino. Un film “sensuale”, intrigante nel suo incontro di corpi che l’uno dell’altro ignorano tutto eccetto la fisicità e la passione. Un po’ Ultimo tango, senza la stardom di Marlon Brando e le turbe di Maria Schneider.

Hanif Kureishi, che figura nei crediti come uno dei tre sceneggiatori, ai tempi aveva già prodotto diversi script di buon successo per lo schermo, a partire da My Beautiful Laundrette, passando per la miniserie Il Budda delle periferie o per il film Mio figlio il fanatico.

Tutti nati da suoi romanzi o racconti. Così pure per Intimacy, che unirebbe il breve Lampada da notte, contenuto nella raccolta Love in a Blue Time, e il romanzo corto Nell’intimità. Ma la capacità di uno scrittore sta anche nel saper tradire se stesso.

La curiosità così di andare a rileggere le “fonti” fa (ri)scoprire differenze e scarti. Lungo le pagine di Nell’intimità, in realtà, più che sul sesso anonimo ci si addentra nei meandri di un abbandono. Nel perché di un’impossibilità, nonostante un amore debordante per i figli bambini, le loro pelli, i loro profumi.

Si seguono gli andirivieni pensierosi del protagonista, che – come Kureishi – è anche lui sceneggiatore di successo. Come capita a molti, nelle storie dello scrittore anglo-pakistano c’è sempre da qualche parte un frammento della storia dell’autore. Frammento che sta diventando totalità nel caso più recente, quando Kureishi – dopo essere stato ricoverato a Roma per un malore ed essersi ritrovato tetraplegico – qualche mese fa, in gennaio, ha iniziato a dettare al figlio, che li scrive su Twitter, i suoi Dispacci dal mio letto d’ospedale.

 

Se però la finestra da cui guarda il mondo si è al momento ristretta a quella di una stanza d’ospedale, anche alla fine degli anni Novanta il suo cielo era in una stanza. Una cantina, quella di Lampada da notte, dove i due protagonisti del racconto ogni mercoledì si denudano, si sdraiano, si rigirano e fanno l’amore.

Lui forse è lo stesso uomo del romanzo Intimacy, ritrovato nel giro di qualche anno, dopo che ha lasciato la casa con la sua valigia, dopo che il successo ha iniziato ad affievolirsi, le donne ci sono state e poi sono andare senza lasciare segni. Dopo che la vita si è spogliata di orpelli e inutili accessori. E l’uomo “ha iniziato a pensare che quello che succede in questa stanza sia la sua sola speranza (…) Ma che importa? Finché c’è il desiderio, c’è un impulso; sei vivo; volere è andare oltre te stesso, nel mondo, un passo dopo l’altro”. Senza meta. Intuendo già quello che anni dopo scriverà in un altro romanzo: “Credo sia meraviglioso innamorarsi. Ma disamorarsi, perdere l’illusione, ecco un’arte veramente necessaria”.

Accanto all’arte del romanzo (e della sceneggiatura), Kureishi ha sempre coltivato anche quella del racconto: “Un’idea che mi arriva come un lampo… Un po’ come una canzone: senti la melodia e la componi subito”, spiegava tempo fa.

Non a caso, fra i suoi autori di racconti preferiti da una parte c’è Čechov, con la sua divertita malinconia, e dall’altra Hemingway e Carver, con l’essenzialità visiva del loro narrare. Immagini, flash, schegge di vita che ben si prestano poi a trasposizioni cine-televisive pronte a tradirle, portandole poi – “un passo dopo l’altro” – su altri percorsi.

Vale però anche la pena di fare un fermo immagine, invertire quei passi e tornare indietro. A rileggere le sue storie.