Se la “sindrome del sopravvissuto” non fa per voi

Una vita intera, 56 anni conclusi nel 1947, a Drammen, pochi chilometri da Oslo, e nessuna bellezza. Un padre pastore  protestante, oltre che imprenditore. Una vocazione alla scrittura fin da quando era ragazzo.

Con Due vivi e un morto, Sigurd Christiansen entra nella collana di Minimum Fax “Introvabili”, dove la redazione sceglie di ripubblicare libri che sente come “attuali, necessari, vicini alla nostra sensibilità”.

Ci entra portandosi dietro Ibsen e Dostoevskij, sensi di colpa e una nordica atmosfera di incomunicabili silenzi. Ma l’aspetto interessante è che tutto questo nasce dalla storia di una rapina all’ufficio postale. Un punto di partenza che gli americani avrebbero risolto con sparatorie, fughe, banditi braccati.

Qui invece si snoda tutto all’interno dell’anima. E se fuga c’è, questa avviene da un mondo incapace di comprendere ma pronto a condannare.

Due banditi e tre impiegati. Il primo difende la cassa e viene ammazzato. Il secondo non capisce bene cosa stia succedendo, fa il gradasso perché non crede che gli spareranno e si prende un’ammaccatura in testa. Il terzo è Berger, il nostro antieroe. Lui davanti alla pistola che minaccia di ucciderlo prima riflette e poi molla la cassa. Questo ne farà – agli occhi della polizia, della direzione delle poste, dei concittadini e della moglie, persino della madre – un vigliacco, stigma su cui si arrovella per anni finché…

Dovevo dunque farmi uccidere?”, chiede e richiede Berger da una pagina all’altra, ripensando a quei pochi minuti in cui la sua vita è cambiata e all’amico scomparso, Kvisthus.

Il senso di colpa – spiegano gli psicologi – attanaglia sempre i sopravvissuti, se sei l’unico che se l’è cavata in un incidente o in un attentato o in un evento naturale, continuerai a lungo a chiederti: perché io sì e gli altri no?

Ma per l’impiegato postale di Christiansen è diverso: lui sa di aver fatto la scelta giusta, che non avrebbe avuto senso morire per un pugno di corone, lasciando nella disperazione e nella miseria la giovane moglie, il figlio piccolo, le speranze di futuro.

Il mondo intorno questo non glielo perdona. Nella piccola città, bastardo posto, l’oppressione sociale è quasi violenza. Il silenzioso biasimo collettivo scivola negli occhi che si sottraggono, nelle mani che non si tendono. E progressivamente cresce di commento in commento, come succede in tante occasioni sui social dove l’odio si gonfia e rende impossibile difendersi se non con la fuga.

Fuga che Berger sceglie come via d’uscita. Ma, come diceva Seneca, anche se fuggi la tua ombra ti seguirà sempre. Un tema su cui la letteratura nordica spesso si è esercitata, indagando colpe e “spettri”.

Lo spettro che perseguita il protagonista ha un nome: Lydersen. È lui l’impiegato che si è salvato, che si è ammantato di eroismo, che ha fatto quella carriera che sarebbe spettata a Berger.

Inattesa, poco dopo la metà del libro, arriva però la possibilità di un riscatto. L’uomo che, come in romanzo di Dostoevskij, incontra l’impiegato, avviando un processo di confessione e redenzione, si chiama Rognaas e non è ciò che appare.

Le sue parole però permetteranno a Berger di ritrovare l’orgoglio di se stesso e della propria famiglia. Senza colpo ferire.

Lo scrittore norvegese Sigurd Christiansen

Il romanzo di Christiansen, che Mondadori pubblicò nel 1933, già ai tempi aveva avuto ottimi riscontri. Aveva fatto vincere all’autore il premio per la migliore opera letteraria nordica. E in seguito era diventato anche film, con un paio di produzioni norvegesi e una più recente anglo-svedese, dove nei panni del protagonista recitava Patrick McGoohan, uno che l’anno seguente avrebbe detto di no alla parte di James Bond in Licenza di uccidere, ma che a Berger non aveva resistito.