Gabriele Lavia: “Che peccato dover morire prima di Putin”

Lei lo sa perché il sipario è rosso?”. Ammetto: “No“. “All’origine era nero, come la notte. Diventò rosso – di quel rosso  particolare che vediamo ancora oggi nei teatri – in onore del sangue che cade dagli occhi di Edipo”.

Mi spiace, non lo sapevo.

Il problema è che anche gli architetti non lo sanno, e pensano magari di inventarsi il teatro facendo i sipari blu. O costruendo sale dove non si sente niente.

Meglio le vecchie sale?

La migliore era quella del Piccolo Teatro di via Rovello, a Milano: aveva le proporzioni ideali, per via dell’altezza del palcoscenico. Fu grazie a quella graticcia così alta che Strehler poté fare i suoi spettacoli.

Gabriele Lavia compirà 80 anni il 10 ottobre e – in quasi sei decenni di carriera – di palcoscenici ne ha calcati tanti. Ultimo (per ora) titolo del cartellone personale, Il berretto a sonagli di Luigi Pirandello, che recita e dirige in questa stagione, con la sua compagnia e la moglie Federica Di Martino.

Con Strehler, Lavia ha lavorato una sola volta, a 30 anni in Re Lear. Tuttavia, ha assistito a molte prove ed è convinto che fosse “il più grande regista di teatro, che però non si definiva mai regista: diceva sempre ‘noi attori’. Il problema è che ho avuto la fortuna di incrociare nella mia vita persone importanti, attori e registi”.

Problema, dice?

Sì, perché oggi è più difficile che si possa raggiungere quel livello di profondità, di sensibilità. Il teatro è cambiato molto, ma più che altro per la struttura organizzativa, la burocrazia amministrativa elefantiaca, che ha il solo obiettivo di mantenere se stessa.

Tornando ai “maestri”…

Si impara solo con l’imitazione. Io avevo un rapporto particolare con Renzo Ricci. Il lavoro dell’attore è strano, fatto di furti: vedi qualcosa, rubi da un altro e rubando lo nascondi.

Lei che cosa ha rubato?

Una penna bellissima, rossa e blu.

Un furto fuor di metafora, quindi.

A Catania, in seconda elementare, un mio compagno aveva questa penna di due colori, che oltretutto non aveva il pennino: una biro! Allora non se ne vedevano, gliel’aveva data forse un soldato americano. La rubai. Ne porto ancora oggi il pentimento: non l’ho mai restituita.

Le piacciono le biro?

Le detesto! Il mio professore di Storia del teatro all’Accademia, lo scrittore Giorgio Bassani, voleva che le nostre tesine fossero rigorosamente scritte a mano, ma se scrivevi con la penna biro nemmeno leggeva. Io avevo la mania delle stilografiche e ogni giorno ne portavo una diversa per fargli invidia.

Come insegnava Bassani?

Leggeva versi, non insegnava nulla della storia del teatro. Eppure ho imparato moltissimo da lui. Lo ritrovai poi vicepresidente della Rai, a quel punto io ero un attore un po’ noto perché avevo fatto qualche romanzo sceneggiato (nel 1963, debuttò con il Marco Visconti diretto da Anton Giulio Majano, ndr).

La televisione dà molta più notorietà del teatro.

Quando la feci, mio padre pensò che ero arrivato. Non gli andava giù che facessi l’attore, ma quando i vicini gli fecero i complimenti perché avevano visto suo figlio in tv, si tolse il cruccio.

Suo padre era siciliano ma, lavorando in banca, per un periodo fu trasferito a Torino e prima ancora a Milano.

Mia madre venne a Milano dove lui era stato mandato perché si era ammalato combattendo in Albania. C’era la guerra, mio padre vide la Scala crollare sotto i bombardamenti, e anch’io sono nato mentre bombardavano la città. Certo, se adesso penso a quel malato di mente di Putin….

Che cosa pensa?

Poveraccio, sta scrivendo la sua condanna, e forse lo sa.

E se fosse anche la nostra, di condanna?

No. Il pensiero libero non può morire mai. Putin è patetico, un poveretto che annaspa. Vorrei vederlo morto, non piangerò, però morirà dopo di me e non avrò questa gioia.

È d’accordo con la scelta di alcuni teatri, per prima la Scala, di non ospitare artisti filo putiniani, come il direttore d’orchestra Valery Gergiev?

È una questione filosofica complessa, bisogna pensare molto bene prima di prendere decisioni, quella affettiva è troppo carica di sentimento. Istintivamente, uno che dice: “Mi piace tanto Putin perché se non c’era lui non sarei mai arrivato a dirigere il Teatro Mariinskij” lo posso comprendere. Ma allora, per favore, vattene.

C’è invece un russo che lei ama molto: Anton Čechov.

Per me è in cima. Il gabbiano è una riscrittura di Amleto, complicata dal fatto che a un certo punto il fetente Re Claudio, ossia Trigorin, si scopa Ofelia, che è Nina. Čechov l’ho fatto tutto.

Nella classifica quindi il russo batte il bardo?

Ma no, Shakespeare è Shakespeare. Lassù in vetta ci sono anche i tre grandi greci, Calderón de la Barca, Molière, Ibsen, Strindber».

Zero italiani?

Pirandello. È grandissimo. I ragazzi credono che sia una palla, poi vengono in teatro a vederlo e capiscono che non avevano capito. Ma non dimentichiamo Goldoni: per un teatrante è come il Vangelo, io mi porto dietro le sue commedie come il breviario di un prete di cui leggere due paginette al giorno.

Insomma, non ha intenzione di smettere. Vorrà dire che si diverte.

No, il teatro è un’infelicità enorme.

Allora perché continua?

Non so fare altro. Il fatto è che è troppo difficile e se hai coscienza ti rendi conto che sei sempre inadeguato per fare la parte, e allora sei scontento.

Eppure lei prende sempre moltissimi applausi.

Certo, il pubblico è meglio che venga e applauda. Ma non è che se ti applaude tu ti dici: “Come sono bravo“. A volte mi sento così cane,  e magari mia moglie mi dice: “‘Ma no, stasera eri meglio di ieri” Se devo giudicare i miei spettacoli, i migliori sono i primi, quando non ero capace. Da giovani si sanno meno cose, ma ci si arriva prima per altre strade. Quando sei vecchio, ce la fai perché dici: “Questo l’ho già fatto, quest’altro anche“.

Invecchiando, quando dirige gli attori urla un po’ meno? Alcune sue sfuriate, ai tempi soprattutto in cui stava con Monica Guerritore nella vita e in scena, sono memorabili.

Sì, da giovane lo facevo, oggi non grido più. E poi ho passato parte della mia vita di regista a fare le cose pulitissime, tutto doveva essere perfetto. Adesso invece le piantane sono storte, i proiettori a vista, gli oggetti quasi tutto di recupero.

Lei ha tre figli: Lorenzo è attore e regista, Lucia è attrice, Maria si occupa di consulenze artistiche. E poi ci sono due nipotini. Vorrebbe che anche loro proseguissero la tradizione di famiglia?

No, per carità! Il piccolino già lo portano sul palcoscenico, ma lasciate stare. Piuttosto fategli visitare una fabbrica di lavatrici, lo renderete molto meno infelice! Fare l’attore è l’arte più difficile perché hai uno strumento che sei tu e la tua opera sei sempre tu. Significa fare te stesso e questo è davvero complicato.